DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Bruno Ventavoli per “la Stampa”
Il titolo, «Il manichino della storia», allude al dipinto di Goya in cui quattro fanciulle lanciano per aria un fantoccio di paglia. Che per il curatore della mostra, Richard Milazzo, sarebbe il curatore stesso, sballottato dalle fluttuazioni del mercato e da un’arte che talvolta smarrisce se stessa. O chissà cos’altro. Ma a parte il rebus crittografico sul cartone goyesco le 90 opere di 48 artisti raccolte nell’ex manifattura tabacchi di Modena costituiscono una divertente collettiva nata dall’idea del grande gallerista modenese Emilio Mazzoli e di Massimo Bottura, chef amante dell’arte.
Il luogo ove è allestita è un bell’esempio di recupero urbanistico appena inaugurato. E l’iniziativa non è solo un atto d’amore (dichiarato) di Mazzoli verso la città della Ghirlandina, ma anche la radiografia del gusto di un territorio, visto che le opere appartengono tutte a collezionisti locali e raramente si potrebbero vedere. Realizzate negli ultimi trent’anni, vanno dal concettualismo all’arte povera, alla transavanguardia; da William Anastasi ad Alighiero Boetti, da Nicola De Maria a Nan Goldin, da Shirin Neshat a Cindy Sherman, da Tillmans ad Alex Katz.
Spiccano, per esempio, tre Basquiat, in omaggio proprio a quel rabdomante della genialità che è Mazzoli, il quale scoprì il graffitista quasi prima della sua stessa New York e lo consigliò agli amici modenesi quando non era ancora star delle quotazioni (a proposito di manichini scagliati nel cielo turbolento del mercato);
l’immensa portaerei in piombo di Anselm Kiefer, montata su una tela punteggiata da un pulviscolo bianco e da numeri che possono essere stelle o identificativi di soldati morti nella grande galassia della violenza umana; le patacche di colore afferrate da mani grigie di Mimmo Paladino; gli «occhi chiusi e gli occhi aperti» sui volti femminili di Alex Katz.
Il brasiliano Vik Muniz, virtuoso dell’illusione, risveglia gioie bambinesche di fronte al suo «Don Chisciotte». Visto da vicino appare un caotico abbandono di soldatini, macchinine, giocattolini: ma muovendo qualche passo indietro, la rinfusa di oggetti, delinea il profilo del cavaliere della Mancha. Gli risponde l’immensa foresta di faccine floreali sorridenti di Takashi Murakami, sgargianti emoticons di un confortevole kitsch. O il grande fiore rosso e verde di Donald Baechler, che domina un collage di parole («dont be silly»), figurine di personaggi storici, frammenti di dadi, geometrici mandala.
Una stanzetta, chiusa da una tenda prude ai minori di diciott’anni, ospita un fantoccio di Jake a Dinos Chapman, un aggressivo troll da film fantasy con un falletto di gomma al posto del naso nemmeno troppo dotato al confronto d’un Siffredi o un Trentalance. E accanto, meno porno, ma altrettanto inquietanti, gli organi interni riprodotti in un perfetto, trasparente, vetro di Burano, a grandezza naturale, di Shen Zen, l’artista cinese morto poco dopo aver realizzato l’opera (a 45 anni), ucciso dall’anemia che lo corrodeva da quando era ventenne.
E ancora, la donna di Schifano che partorisce feti e colori in un’energia che straripa dalla cornice; la gigantesca tela di Cucchi a forma d’Africa, imprigionata dietro una rete ferrata, con nove coppe di ceramica dipinte di mani verdi e gialle gesticolanti o preganti; un piede ferito fotografato in obitorio da Andres Serrano;
la potente energia colorata di un astratto Schnabel, che pare un pollice o un urlo alla Munch; di Gino de Dominicis, che con la sua sfuggente irreperibilità fu forse uno degli artisti più estranei al «gioco del manichino», viene scelta una ieratica Alessandra, altera, insensibile, polifema rossa, insieme a tre tele di figure disumanizzate che emergono dal buio.
Il denso catalogo della mostra, edito da Cosimo Panini, è un labirinto teorico di Milazzo, che commenta le varie opere, stilettando colleghi e fin wikipedia, citando Benjamin e Wittgenstein per trovare una risposta alla provocatoria domanda iniziale. La quale coinvolge se stesso, ma anche l’intero «spettacolo dell’arte» contemporanea messa in scena (o in mostra). Ben sapendo, ovviamente, che risposta non c’è. Ma il giro dello spettatore per i locali, ove un tempo le operaie manipolavano foglie di tabacchi, è occasione di letizia.
IL MANICHINO DELLA STORIA BASQUIAT MURAKAMI CHAPMAN
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