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Angelo Carotenuto per “la Repubblica”
Scrisse Gianni Brera, quella sera, che Van Basten «si è meritato qualche saracca » e che Rijkaard era stato «spesso lasciato solo a pirlare in mezzo ai migliori avversari». Milan 1, Benfica 0. Ventisei anni sono passati, la Coppa dei Campioni baciò il calcio eretico di Arrigo Sacchi per la seconda volta di fila e la cosa è morta lì, nessuno c’è più riuscito dopo.
Da quando abbiamo preso a chiamarla Champions, con la nuova formula, il bis è un concetto astratto, un’ipotesi, e tale rimarrà fino al 2017. La caduta davanti all’Atlético Madrid del Barcellona, la macchina da calcio più celebrata degli ultimi anni, si porta dietro il sospetto che questa Coppa logori come pochi altri eventi.
Quando giochi per vincerla, in campionato costa dei punti, si dice una decina. Quando giochi per rivincerla, esige in più la capacità di reggere al rilancio della sfida di una concorrenza rinforzata e mai così ampia. Se non ce l’hanno fatta Messi Suárez e Neymar, tridente da 109 gol in un anno, chi altro potrà mai provarci?
Diciotto partite bastavano al Milan olandese per vincere due Coppe in due anni, quattro delle quali con bulgari e finlandesi. Oggi se ne giocano tredici per arrivare fino in fondo, addirittura quindici il Liverpool di Benítez nel 2005 e il Milan di Ancelotti nel 2007, perché dovettero partire dai preliminari, mese di agosto, quando all’epoca di Sacchi al massimo ti aspettava un’amichevole a Cesena. Questo torneo così cambiato in un calcio stravolto da 25 anni di pay tv, resta un’eccezione.
Nello stesso arco di tempo, la serie A ha celebrato un tris, due doppiette, una cinquina e un’altra in arrivo. La Premier, aspettando Leicester, s’è rimpallata il titolo fra Londra e Manchester. In Spagna il Barcellona è riuscito a vincere la Liga quattro volte di fila (’91-’94) e poi di nuovo per tre (2009-2011). La Bundesliga sta per finire per il quarto anno di seguito fra le braccia del Bayern.
I fatturati sono ora elemento di valutazione di una squadra. Ma rispetto ai tornei nazionali, la concentrazione di ricchezza in Champions è inferiore. Già un ottavo (la Roma) può valere 70 milioni: sul mercato due giocatori che cambiano gli equilibri. Ieri e oggi: mondi inavvicinabili.
Quando nel 1979 il piccolo Nottingham Forest si trovò a 24 ore dalla prima finale di Coppa Campioni con gli svedesi del Malmoe, non aveva con sé il suo allenatore, Brian Clough. Alla conferenza stampa della vigilia si presentò il vice, Peter Taylor, e confessò che Clough aveva qualche difficoltà a rientrare da Creta. Era in vacanza. Resta da capire quanto sarà diversa la Champions di domani.
Due/tre posti in semifinale sono più o meno proprietà privata di Real, Bayern e Barcellona, ma è vero che in 6 anni hanno vinto 5 squadre differenti (e 7 in 9 anni). Un progetto di riforma c’è, non nella direzione di un allargamento del campo. I ricchi chiedono più garanzie, un posto fisso per chi ha storia e genera profitti. Le garanzie portano più soldi. O così o minacciano la scissione. Ma se questa Superlega fosse stata un progetto nel 1970, non avremmo avuto al via né l’Ajax di Cruyff né il Bayern di Beckenbauer. Gli ultimi a fare tris.
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