DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Antonio Riello per Dagospia
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Quando pensiamo all'Arte Contemporanea a Londra siamo tutti abituati a ragionare sui grandi spazi istituzionali (Tate, Royal Academy, White Chapel, Serpentine, Hayward Gallery) o sulle potenti gallerie private che fanno il mercato (Hauser & Wirth, White Cube, Victoria Miro, Gagosian, Lisson, etc. etc.). In realtà esiste - sebbene meno celebrato - anche un tessuto espositivo pubblico diffuso che ha una considerevole importanza.
Il profilo mediatico è ovviamente più basso e la gente che lo frequenta più local (e forse meno elegante) di quello che affolla gli opening dei musei. Ma è proprio questa rete di spazi la linfa vitale della instancabile ricerca artistica che si sviluppa nelle diverse parti della metropoli.
La regola generale è che c'è una proporzionalità inversa tra il costo degli affitti e le aree dove queste strutture espositive sorgono: meno gli affitti costano e più ce ne sono (ma ci sono, in ogni caso, parecchie eccezioni).
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Il Camden Art Centre, che fa parte di questa rete, è posizionato nella parte Nord-Ovest di Londra sotto le colline di Hampsted e lungo Finchley Road (non lontanissimo dalla vecchia sede della Saatchi Gallery e dai leggendari studi di Abbey Road). Attualmente è finanziato con i fondi pubblici dall'Arts Council e diretto da Martin Clark. Lo ospita un bel edificio di fine Ottocento che dispone di caffetteria (con relativo giardino) e bookshop ben fornito. Il CAC funziona anche come "artist residence" ed è sede di molti corsi e laboratori (il più noto e affollato è quello di ceramica contemporanea).
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In queste settimane (fino al 23 di giugno) sono in corso due mostre parallele. "Animals to Remember Uganda" di Andrew Omoding (1987) è un virtuoso esercizio di zoologia fantastica. Omoding è un ex-profugo del grande esodo della Guerra Civile ugandese e questa condizione è alla base della ragion d'essere di tutto il suo lavoro.
L'artista (che ha già esposto in queste sale nel 2019) è un appassionato raccoglitore di materiali di scarto e oggetti abbandonati che poi riesce a rigenerare nelle sue installazioni. Gli piace abbinare le sue ardite realizzazioni con la musica pop africana, di cui è un raffinato cultore.
Le sculture in mostra, che ha prodotto apposta per il CAC, sono senz'altro evocative, poetiche e assai ingegnose. Memorie trasfigurate di animali della savana, davvero molto ben realizzate e frutto di una verace immaginazione. L'unica nota di perplessità è che, sia il concetto che l'aspetto, ricordano davvero da vicino (musica a parte) il lavoro del grande artista americano Jimmie Durham, scomparso nel 2021. Caso? Omaggio postumo? Spirito del tempo? Di sicuro i curatori della mostra avranno vagliato la questione in modo appropriato.
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Matthew Krishanu (1980) è invece l'autore della mostra "The Bough Breaks" (tradotto in italiano si potrebbe leggere come "Il punto di non-ritorno", ma qui c'è anche uno specifico riferimento a come l'artista dipinge se stesso e il fratello: sempre vicino o sopra a grandi rami d'albero). Krishanu è nato a Bradford, i suoi genitori erano dei missionari cristiani originari del Bangladesh. Le sue opere pittoriche indagano le relazioni esistenti tra la Cultura inglese contemporanea, le passate esperienze di dominio coloniale, la condizione dei popoli colonizzati (e le modalità espressive a loro correlate).
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Siamo nel pieno del dibattito che scuote - anche con violenza verbale - tutto il mondo intellettuale anglosassone. Anche le attuali massicce proteste per il conflitto a Gaza nel Regno Unito hanno in realtà sullo sfondo il dibattito post-coloniale (in quest'ambito, Winston Churchill non viene dipinto con colori molto diversi da quelli di Netanyahu).
I quadri di Krishanu sono dipinti con un linguaggio estremamente diretto e quasi dimesso. Solo apparentemente ingenuo. Si tratta invece di una "sofisticata semplicità" che allude a stili che un tempo si sarebbero facilmente definiti come "indigeni". Poderosi alberi del Nord-Est del sub-continente indiano si alternano a celebrazioni religiose (Messe, Battesimi, Funerali, Benedizioni, etc. etc.).
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I fedeli che assistono alle cerimonie risultano come entità indistinte (senza una vera e propria identità): le persone, volutamente, appaiono come i britannici per lungo tempo hanno visto - soprattutto nelle illustrazioni popolari dell'epoca - le genti sottoposte. Un misto tra una innegabile e sincera fascinazione esotica e una becera superiorità del colonialista bianco (intesa ovviamente anche in presunti termini morali).
Si ammirano parecchi vescovi e preti nell'esercizio solenne delle loro funzioni (non se ne vedevano tanti da decenni nell'Arte Contemporanea). I paesaggi che fanno da sfondo sono asciutti ed essenziali. Niente luoghi comuni, una visione quasi "tecnica" da fotoreporter neutrale, senza commenti o giudizi.
I curatori della mostra vedono in questi quadri influenze ampie che vanno da El Greco, a Gwen John, ai dipinti delle caverne di Ajanta. Forse un eccesso di influenze...Comunque Krishanu è davvero bravo e il suo lavoro esemplifica, come pochi altri sanno fare oggi, una complicata (e scomoda) eredità estetica legata all'immaginario imperiale.
MATTHEW KRISHANU (The Bough Breaks)
ANDREW OMODING (Animals to Remember Uganda)
CAMDEN ART CENTRE
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