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Domenico Calcagno per il “Corriere della Sera”
Senza spazio e senza avanzamento non si tirano i drop, soprattutto in una finale mondiale. Quando hai meno di un paio di secondi di tempo e senti il respiro degli avversari, lì, a due passi, decisi a seppellirti nell' erba, devi pensare solo a cavartela senza troppi danni e a nient' altro.
Se però sei Dan Carter allora il drop lo calci, lo metti in mezzo ai pali e con quel drop vinci la partita. Il fenomeno col 10 sulle spalle ha chiuso in gloria una carriera irripetibile: 1598 punti con i 19 di ieri e due Coppe del Mondo, più una serie infinita di record e di medaglie. Ha messo la sua firma prendendosi la Nuova Zelanda sulle spalle e ribaltando in 5 minuti l' inerzia di una partita che ai neri stava sfuggendo di mano.
Il drop, un calcetto e un placcaggio da terza linea su Beale, una punizione trasformata da metà campo: 6 punti per ricacciare lontano i canguri arrivati a -4 dopo aver solo sofferto e difeso per 50 minuti. Poi ci ha pensato il suo erede designato, Beauden Barrett, all' ultima meta, la terza degli All Blacks (le altre di Milner-Skudder e Nonu), segnata con uno scatto da sprinter in fondo a un contropiede che nemmeno l' Inter del Mago Herrera.
Hanno vinto gli All Blacks, ed è giusto così. Hanno vinto 34-17 contro un' Australia di «giocolieri, amanti e lottatori» come l' aveva definita l' allenatore Cheika. Una grande squadra di rugby, che ieri è stata capace di risalire dal 21-3 al 21-17 con le mete di Pocock e Kuridrani, sfruttando un cartellino giallo rifilato dall' arbitro Nigel Owens a Ben Smith per un placcaggio vietato su Drew Mitchell.
Ma l' Australia, per quanto grande, è solo una squadra, gli All Blacks sono un' altra cosa, un ordine monastico, uomini totalmente dedicati al rugby e alla maglia, nera come i calzoncini, le calze e le scarpe. Perché Richie McCaw, l' altro monumento - 148 partite, 112 da capitano, 131 vinte -, sarà anche il padre priore della confraternita ma neppure lui si permette una scelta, un gesto, una parola fuori dalla regola e quando giocò la sua partita numero 100, a Auckland, al Mondiale di 4 anni fa, non entrò prima dei compagni come fanno tutti per prendersi l' applauso, entrò con la squadra perché «tutto quello che ho raggiunto lo devo a chi gioca con me».
Non c' è stato nulla da fare, nemmeno per Pocock, Hooper e Fardy i tre della terza linea, l' arma che avrebbe potuto ribaltare il pronostico. Troppo esatti gli All Blacks, troppo perfetto Carter, che ha sbagliato un solo calcio e ha diretto le operazioni con la lucidità del fuoriclasse. A 33 anni, uno così dovrebbe giocare ancora, ma le decisioni sono state prese e Carter non metterà più la maglia nera. La sostituirà con quella biancoceleste del Racing di Parigi, che lo pagherà quasi due milioni l' anno.
«Chi è meglio tra Carter e McCaw? La squadra è meglio, la squadra fa la differenza» spiegava il c.t. Hansen. «La soddisfazione, adesso, è ripensare a tutto il lavoro fatto per arrivare fino qua» aggiungeva McCaw.
Che ha rimandato ancora l' ultima parola sul suo futuro, anche se tutti si aspettano che smetta: «Saprete tutto quando saremo tornati a casa». Presto, ma non subito. Prima bisogna festeggiare questo 31 ottobre, questa notte delle streghe che in passato aveva portato quattro sconfitte ai neozelandesi, è dolcissima.
Perché gli All Blacks sono i primi ad aver vinto la Coppa del Mondo per tre volte, i primi ad averne vinte due di fila. Ieri in Nuova Zelanda anche le pecore facevano la ola.
all blacks haka
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