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PALAZZO TE, IL TEATRO DEL MITO TRA ILLUSIONI E METAMORFOSI - MANTOVA CELEBRA I 500 ANNI DELLA SUA “OPERA TOTALE” CON UNA ESPOSIZIONE CHE RIPRENDE IL POEMA OVIDIANO "LE METAMORFOSI" E METTE IN MOSTRA OPERE DI TINTORETTO, CORREGGIO, RUBENS, POUSSIN, PENONE - GIÀ 70 ANNI DOPO LA FINE DEI LAVORI, CONDOTTI SOTTO IL GENIO DI GIULIO ROMANO, PALAZZO TE ERA QUASI ABBANDONATO. PER MOLTO TEMPO VENNE USATO COME CASERMA - LA MANCANZA DI TRACCE DI TRADIZIONE RELIGIOSA CRISTIANA E LA CHIAVE PER ACCEDERE AL LABIRINTO MITOLOGICO...- VIDEO
Maurizio Cecchetti per la Stampa - Estratti
Già 70 anni dopo la fine dei lavori condotti sotto il genio di Giulio Romano, Palazzo Te era quasi abbandonato. Per molto tempo venne usato anche come caserma e i soldati lasciarono i loro graffiti sugli affreschi della Caduta dei Giganti. Oggi sembra quasi incredibile che si sia lasciato all’incuria del tempo, almeno fino al Settecento, quello che il suo direttore attuale, Stefano Baia Curioni, definisce «Palazzo del Mito».
Forse accadde perché in epoca di battaglie fra protestantesimo e cattolicesimo, gli affreschi di Giulio Romano parlano una lingua disinvolta, anche scabrosa, un neopaganesimo ispirato alle Metamorfosi di Ovidio e alla Favole di Apuleio.
L’epoca è fra quelle che hanno segnato la Storia in modo più inciso di altre: sono gli anni, dal 1521 all’intera prima metà del secolo, dove gli Asburgo e la Francia si combattono, e Carlo V, capo del sacro romano impero, svolge, scrive Baia Curioni, la funzione del katechon, barriera all’avvento dell’apocalisse. Lo stesso studioso nota in effetti che a Palazzo Te non ci sono tracce di tradizione religiosa cristiana.
Ma Carlo, oltre a fronteggiare l’ostilità del regno di Francia e a opporsi alla Riforma protestante, fu impegnato anche contro i turchi a Vienna e venne incoronato imperatore da Clemente VII a Bologna nel 1530. In quell’occasione fece visita a Federico II Gonzaga a Mantova, e vi tornò due anni dopo.
Forse Palazzo Te era il biglietto di visita che Federico II voleva esibire a Carlo V: un teatro del meraviglioso, una Wunderkammer dove mito, natura e arte operano insieme senza pedaggi al cristianesimo.
Il Gonzaga nel 1524 chiese a Giulio Romano e ai suoi collaboratori di costruire e decorare questa villa esterna alla città, il cui nome deriva probabilmente dall’isoletta Tejeto, generata dal canale Rio che attraversa Mantova. Il progetto venne messo in opera attorno al 1525 quasi come una grande utopia, purtroppo incompiuta dopo il 1535.
Ma dieci anni per realizzare ciò che vediamo oggi non sono poi tanti, dunque l’intenzione di fare qualcosa di estremo c’era. Fu anche il luogo che Federico II voleva dedicato all’ozio e al piacere, dove la decorazione rappresenta la soglia di passaggio verso un mondo nuovo.
Per celebrare i cinquecento anni dall’inizio dell’impresa, Palazzo Te ha allestito da pochi giorni una mostra, Dal caos al Cosmo, aperta fino al 29 giugno e curata da Claudia Cieri Via, che riprende il poema ovidiano Le Metamorfosi. Un immaginario dipanato da Giulio Romano, dove il mito è un modo di mettere ordine, direbbero i fisici, nelle leggi dell’entropia che dominano il mondo. Un coacervo di saperi e pensieri che risalgono al «tempo zero», scrive Cieri Via, all’istante iniziale della prima espansione dell’universo, un big bang che è come il «pianto del bambino al momento della nascita», e si dispiega fino a noi, che non potendo risalire oltre quel limite abbiamo fatto del mito il racconto della nostra origine (come la Bibbia, del resto).
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Per autori coevi come Lomazzo o Giovan Battista Armenini, i miti dovevano allestire teatri di gioia e allegrezza ma senza «ombra di malinconia». Eppure la malinconia è più che mai presente nella cultura del Cinquecento e in particolare nel manierismo, con le sue stranezze ed eccessi o distorsioni di elevata caratura simbolica dove il tempo che passa è la vera ossessione umana. In Ovidio e in Apuleio, la metamorfosi è conflitto di armonia e sfrenatezza, di apollineo e dionisiaco, secondo le polarità nietzscheane rilanciate da Warburg. Erotismo ed eroismo, in queste storie, e nella interpretazione di Giulio Romano, si esaltano come in un combattimento, un vitalismo che incarna l’animo del Gonzaga.
Per il quinto centenario, Palazzo Te si presenta con il riallestimento delle tre sale iniziali. La prima è ora occupata da un plastico del Palazzo circondato alle pareti da alcune tavole dove si riassume la situazione storica di Mantova, la funzione del Te, luogo magico pensato come opera d’arte totale che tiene insieme cultura, immagine e politica, dove aleggiano i pensieri e le visioni di Rabelais, Ficino, Ariosto, Raffaello, Aretino, Castiglione e Boiardo; ovvero, il retroterra umanistico di Federico. Con prestiti da grandi musei, come il Prado, il Louvre, l’Albertina di Vienna, Gli Uffizi, la Galleria Borghese, l’impianto decorativo delle varie stanze si integra con opere di Tintoretto, Correggio, Zucchi, Rubens, Poussin, e si chiude con un tocco di contemporaneo, la Dafne dello scultore Giuseppe Penone.
Il direttore di Palazzo Te sfodera, in modo suggestivo, l’immagine del Bianconiglio di Alice in Wonderland. Accostamento che sottolinea la necessità di una chiave per accedere al labirinto mitologico di Giulio Romano: l’orologio che il coniglio di Alice guarda spesso, potrebbe essere il badge per entrare nel Palazzo dei misteri.
Simbolo rifiutato, per esempio, dalla confraternita dei Telemiti che Rabelais introduce in Gargantua e Pantagruel.
Thelème è l’abbazia dove nessuno porta orologi e la regola per tutti è: «Fa ciò che vuoi». Comandamento per uomini liberi, che non hanno fretta e non hanno bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare. Una utopia anche questa. Fa pensare anche al motto di Augusto, il primo imperatore romano: Festina lente, ossimoro che invita a una lentezza senza flemma.
Palazzo Te, opera d’arte totale, è un teatro dove il vitalismo del Gonzaga prevale nelle sale della Favola di Amore e Psiche e in quella del Sole e della Luna, passando per la più grande, coi meravigliosi cavalli, che, se mai li vide, certo suscitarono l’invidia di Géricault; e si approda a quella dei Giganti. Quale sarà allora la chiave per entrare nella tana scavata dal White Rabbit dei Gonzaga? Forse, come nell’Ode di Orazio, il carpe diem.
palazzo te mantova esedra
esedra di palazzo te
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palazzo te mantova
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