
DAGOREPORT - IL TRASFERIMENTO DI SIMONE INZAGHI IN ARABIA? UN AFFARE DI FAMIGLIA. L’ARTEFICE…
IL TESORO C'È MA NON SI VEDE - SAPEVATE CHE, PER MANCANZA DI SPAZIO, DENTRO I DEPOSITI È CUSTODITO IL 90 PER CENTO DEL PATRIMONIO DEI MUSEI ITALIANI? CAPOLAVORI NASCOSTI CHE MOLTI CURATORI PROVANO A RIPORTARE ALLA LUCE - L'UOMO VITRUVIANO DI LEONARDO CHIUSO NEI DEPOSITI DELLE GALLERIE DELL'ACCADEMIA A VENEZIA, LE INCISIONI DI PIRANESI NEL BUNKER DELLA CALCOGRAFIA NAZIONALE DI ROMA…
Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica”
“Cuore del museo". "Cervello". "Polmone". Direttori e curatori museali prediligono le metafore anatomiche per descrivere questa parte del loro regno, il deposito. Per loro sono organi vitali. Il sancta sanctorum del tempio.
E quando fanno strada al fortunato visitatore, tastano e raddrizzano, si assicurano che una certa tela non abbia segni di Lepisma saccharina, soffiano sull'amorino di un sarcofago, accelerano improvvisamente esclamando «ah, questo deve proprio vederlo!».
Il deposito racconta la loro idea di museo, ma, prima ancora, la nostra: è l'idea napoleonica del museo come giacimento di memoria totale (su un luogo, una civiltà, un'epoca), che come tale non si forma per selezione, ma per incetta. Discendiamo dagli accumulatori seriali del Grand Tour: non c'è da stupirsi se, per mancanza di spazio, circa il 90 per cento del nostro patrimonio museale si trovi nei depositi.
Chiuso per chiuso, una coppia è riuscita a visitarne molti durante il lockdown: Filippo Cosmelli, storico dell'arte, e Daniela Bianco, architetta, raccontano questo tour dal Veneto alla Puglia in Il tesoro invisibile (Utet). Entrambi hanno familiarità con l'inaccessibile: sono i fondatori di If experience, nota agenzia che organizza eventi esclusivi legati all'arte.
Esempio: una cena a porte chiuse nella reggia di Versailles. Con questo gusto per «ciò che è prezioso ma non ha prezzo» descrivono gli invisibilia dei nostri musei. L'Uomo Vitruviano di Leonardo chiuso nei depositi delle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Le incisioni di Piranesi nel bunker della Calcografia nazionale di Roma. Gli ori di Oplontis in una cassaforte della Casa di Bacco a Pompei.
I depositi, dicono, non hanno niente della cantina. Neanche quelli che non vedono mai la luce del sole, o quelli, ricavati tra mura antiche e tappeti di erbe spontanee, che ne vedono troppa.
francesca cappelletti direttrice della galleria borghese a roma
Sono luoghi di studio e di scoperte (vedi il certificato di battesimo di Caravaggio, ritrovato per caso nell'Archivio diocesano di Milano), ma soprattutto, rivelano le scelte culturali di direttori e curatori. Qui c'è tutto quello che viene escluso dall'autonarrazione del museo.
E così viene fuori che anche i musei, come le persone, si conoscono più per ciò che occultano che per quello che mostrano. Il deposito della Galleria Borghese di Roma, per esempio, nasconde «il dipinto scelto da Federico Zeri per la copertina del saggio Pittura e controriforma».
Così me lo presenta la direttrice Francesca Cappelletti, e allo storico dell'arte sembrerà superfluo che si aggiunga altro. È una Madonna con bambino di Scipione Pulzone, secondo Cinquecento.
«Zeri ci ha visto l'epitome dell'arte sacra senza tempo, un'arte priva di emotività che congela l'immagine religiosa nel momento della perfezione. Noti la serenità. La dignità. Osservi la differenza con questa Madonna di Leonardo da Pistoia...».
In effetti i bambini di Pistoia sembrano alquanto irrequieti. E il dipinto non è in buono stato. «Pulzone invece sì: starebbe benissimo tra i manieristi dell'Italia centrale, ma ora c'è Amore e psiche di Jacopo Zucchi quindi non abbiamo posto».
Il suo momento arriverà. Come lui attendono il proprio turno veneziani, fiorentini, umbri, ferraresi. «Qui cerchiamo un compromesso tra il museo moderno, diviso per scuole pittoriche, e l'allestimento storico della Galleria, così come si è sedimentato nei secoli. Apollo e Dafne di Bernini, per dire, è nella stessa sala dal 1625».
Ci fermiamo a lungo davanti a un magnifico paesaggio di Paul Bril, o di altro pittore fiammingo presente a Roma a fine Cinquecento: tra rocce immerse nell'oscurità, sotto un tempietto classico, un cacciatore sta per cogliere di sorpresa una gru; un corso d'acqua si allontana verso un fondale verdeazzurro.
La direttrice è lieta che si apprezzi Bril: «Gli ho dedicato una monografia di 400 pagine. Poi ne ho scritte quattro su Caravaggio e per il pubblico sono diventata un'esperta di Caravaggio».
galleria borghese 1
galleria borghese 2
A proposito di pubblico e pittori famosi: «Non c'è un principio metafisico secondo cui è assolutamente impossibile che Caravaggio abbia dipinto una crosta» spiega Michele Di Monte, curatore alle Gallerie nazionali Barberini Corsini di Roma. «Ma se questa crosta esistesse, non potrebbe stare in deposito».
Le competenze di Di Monte trascendono la storia dell'arte per spaziare dal tomismo all'entomologia (utilissima per individuare gli insetti che frequentano i depositi, tipo appunto la Lepisma saccharina o pesciolino d'argento).
Lui, se glielo permettessero, nasconderebbe la Fornarina di Raffaello per costringere i visitatori delle Gallerie ad allargare i propri orizzonti, a rallentare («il tempo medio che lo spettatore passa davanti a un quadro è sette secondi»).
Esistono altre strategie: «La percezione dell'importanza di un quadro dipende dal passe-partout: più è grande, più il quadro è percepito come importante. Se prendi un francobollo e gli dedichi un'intera parete, la gente lo prenderà per un capolavoro». Esperimenti di questo tipo non sono sconosciuti a Palazzo Barberini.
«L'idea è che si possa vedere di più se si è disposti a vedere di meno, e soprattutto a vedere più a lungo». Qui nel deposito, «fuori dal crazy chaos of galleries» (qui sta citando Mark Twain), là dove un tempo era la biblioteca del Cardinal nepote, capolavori quali la Pietà di Baciccio e l'Angelo custode di Pietro da Cortona dormono in griglie scorrevoli, deumidificati da grani di silicio, in attesa di esperimenti e collocazioni, sia pure temporanee.
Non tutti riconoscono la poesia e soprattutto la necessità di queste politiche di avvicendamento. «In garage ci si tiene lo sturacessi, non le opere d'arte. Piuttosto che lasciarle nei depositi, diamole alle scuole, agli ospedali, agli istituti di pena» ha sentenziato Luca Nannipieri, storico dell'arte incline alla provocazione e favorevole alla privatizzazione (si veda il suo pamphlet La bellezza ingabbiata dallo Stato, Ets).
Ma gli addetti ai lavori giurano che il vento sta cambiando. Il ministero della Cultura, per esempio, sta ricollocando cento opere nei territori di provenienza, sottraendole al buio dei depositi. Palazzo Ricchieri a Pordenone espone i tesori del suo caveau, tra cui ci sono Picasso, Chagall, De Chirico, Fontana. Agli Uffizi riapre la Sala delle Carte geografiche.
E il Parco archeologico del Colosseo lancia una docuserie sulle collezioni custodite nei depositi. «Parliamo di un centinaio di magazzini distribuiti tra Colosseo, Foro romano, Palatino e Domus Aurea» spiegano le archeologhe Federica Rinaldi e Roberta Alteri, ideatrici del progetto.
«Nessuno ha idea di quanti reperti ci siano. Solo un venti per cento è inventariato. Ci vorranno anni, ma il Parco sta passando dalla tutela alla valorizzazione». Entrare nei depositi di un monumento archeologico può essere un'esperienza onirica.
Quelli delle Terme di Diocleziano, uno dei quattro poli del Museo nazionale romano, sono in gran parte ricavati all'interno degli antichi ambienti termali. Aule alte dai venti ai venticinque metri, spoglie, terrigne, tagliate da giganteschi scivoli di luce, talmente immense che la facciata del tempio di Augusto ad Ankara o la colossale Artemide di Ariccia vi figurano come pezzetti di un presepe.
Sono stati ricoverati qui più di cento anni fa, dopo la grande mostra sulla romanità organizzata nel 1911 da Rodolfo Lanciani. Due volte vestigia, quindi, insieme a una quantità di sarcofaghi, mosaici, disiecta membra.
«Entro un anno riapriremo queste aule al pubblico» annuncia l'archeologo Stéphane Verger, nominato direttore del Museo nazionale romano lo scorso novembre. Il suo pezzo preferito è un sarcofago del IV secolo a.C.: «è uno dei più antichi di Roma. Un monolite senza alcuna decorazione. Invece questa qui piace molto agli artisti che visitano il deposito...». È una volta con un motivo geometrico. Pare che gli artisti si soffermino soprattutto sulle crepe suturate col calcestruzzo.
«Un vecchio restauro. Li fa impazzire la visibilità dell'intervento». Lasciamo le aule e attraversiamo il chiostro di Michelangelo. Difficile capire in quale secolo si cammini. Sotto le tettoie risposano filari di iscrizioni funerarie. Raggiungiamo l'ambiente dove un tempo sorgeva la palestra: ora ci sono cielo, erba, vento.
E tre porte blindate nell'opus cementicium: conducono ad altri depositi rigurgitanti di antichità. Bolli, anfore, statue, bassorilievi, meravigliosi ex voto di epoca repubblicana. Per ogni pezzo importante Verger ha un progetto di collocamento.
Appena arrivato dalla Francia, mi raccontano due soprintendenti, ha passato giorni chiuso qui dentro, come un bambino in un parco giochi: «certi depositi li abbiamo solo noi». E poi c'è la storia «dell'intrusa».
depositi delle terme di diocleziano 3
Qualche anno fa, in uno di questi magazzini hanno cominciato a trovare reperti fuori posto: «erano sempre oggetti ovoidali». Poi sono spuntate le feci di un grosso animale. Un'archeologa gattara ha risolto il caso: una faina, animale ghiotto di uova, aveva preso dimora in un'anfora rotta, circondandosi di contrappesi da bilancia.
depositi delle terme di diocleziano 1
depositi delle terme di diocleziano 2
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