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VICINI, UN CT DA NOTTI MAGICHE (E UN PO’ TRAGICHE) – UNA VITA IN AZZURRO E TANTE BEFFE: DALL’EUROPEO UNDER 21 PERSO AI RIGORI ALLA COCENTE DELUSIONE DEI MONDIALI DEL ’90 MA NESSUNO GLI HA SERBATO RANCORE – LA POLEMICA CON SACCHI CHE LO SOSTITUI’ IN NAZIONALE: "CON QUEL MILAN HA VINTO POCO" – QUANDO SALVO’ LA VITA A CAPELLO IN BRASILE... - VIDEO

 

Giorgio Gandola per la Verità

 

«Azeglio e le storie tese» fu il titolo che quel giorno d' estate uscì dal cilindro di redazione, al quinto piano del palazzo del Giornale montanelliano. Questo per testimoniare non tanto il delirio metaforico del titolista, ma un fatto fondamentale per il ricordo dell' ultimo giorno: Azeglio Vicini non era soltanto un ragioniere del pallone, ma conosceva l' impeto destabilizzante delle rivoluzioni.

 

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Le storie tese erano quelle di Gianluca Vialli e Andrea Carnevale, le punte titolari della Nazionale ai mondiali di Italia 90 (quelli in casa, quelli del cuore), che alla vigilia ne diventarono le comparse. E si arrabbiavano, e rilasciavano dichiarazioni sibilline nel ritiro di Marino, e tiravano gli asciugamani negli spogliatoi. Azeglio li lasciava fare perché per l' estate mondiale aveva adocchiato, poi scoperto, poi lanciato in silenzio due tipi da niente, due ragazzotti che avrebbero fatto sognare il Paese delle notti magiche: Totò Schillaci e Roberto Baggio.

 

Amava il contropiede manovrato (che se vogliamo è un controsenso), gli agnolotti in brodo, il tocco di Valentino Mazzola e i modi gentili questo signore romagnolo nato a Cesena e morto 85 anni dopo a Brescia, ieri, nell' ultimo giorno della merla. Era uno degli ultimi padri nobili del pallone, erede della sapienza di Enzo Bearzot, fiero antipatizzante del calcio totale di Arrigo Sacchi (troppo frenetico, troppo moderno) e per nulla impressionato dal potere delle squadre metropolitane, lui che aveva giocato nel Vicenza, nella Sampdoria e nel Brescia prima di indossare la tuta che sarebbe diventata una seconda pelle: quella azzurra, di maglina, che enfatizzava i rotoli ma aveva la scritta «Italia» sul petto. E quello era tutto.

 

Nel giudizio sintetico della storia, il problema di Azeglio Vicini è uno solo ma definitivo: non ha mai vinto.

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Da ct dell' Under 21 perde in finale l' Europeo del 1986 con la Spagna, da ct della Nazionale maggiore arriva terzo agli Europei del 1988 (fuori con la Russia) e terzo all' appuntamento della vita, quello con la Coppa del mondo in casa, 50 milioni di commissari tecnici e i televisori sintonizzati da Vipiteno a Lampedusa su un unico canale, quello dei fratelli d' Italia Baggio-Schillaci. Vicini è un fine psicologo, conosce la tattica e a differenza di Bearzot sa come allenare anche i giornalisti. La sua frase preferita è di un realismo granitico: «Sempre meglio stare con i piedi per terra». Purtroppo nello sport il sogno è un valore e se non immagini l' impresa, non la fai. Così non riesce a inculcare ai suoi ragazzi la cattiveria agonistica, l' istinto del killer che ti fa mettere ko l' avversario nelle partite che contano.

 

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La Partita si gioca a Napoli il 3 luglio 1990 in una bolgia, con i tifosi partenopei aizzati da Diego Maradona alla vigilia in modo subdolo: «Napoletani, gli italiani vi detestano 364 giorni l' anno e domani vi chiederanno di tifare per loro. Io vi amo sempre». Ma il San Paolo è azzurro, Schillaci segna subito e con quegli occhi spiritati si consegna alla letteratura sportiva del momento. Lui che è uscito dal ghetto del Cep di Palermo (striscione più perfido «Totò ruba le gomme») e che parla una lingua immaginifica con metafore surreali da Nino Frassica («Non ho un fisico da bronzo di Rialto»), diventa capocannoniere del torneo con sei gol, vincerà la Scarpa d' oro e sarà secondo nel Pallone d' oro di quell' anno dietro a Lothar Matthaeus.

 

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L' Italia di Vicini viene eliminata dal destino. Il centravanti argentino Claudio Caniggia è fortissimo di piede, dribbla e corre come una locomotiva, ha una messa in piega da entraineuse e un tiro rasoterra chirurgico, però segna di testa. Sull' unica uscita a vuoto di Walter Zenga in tutto il torneo. È anche il primo gol che l' Italia subisce. Si va ai rigori, sbagliano Roberto Donadoni e Aldo Serena, le notti diventano tragiche, Vicini diventa malinconico e il ricordo stinge in un passato che sembra preistoria. Da quella notte napoletana l' Azeglio rimane per sempre l' uomo gentile che ancora oggi la società cafona scambia per una persona debole. Il giorno dopo la disfatta, sul campo silenzioso di Marino, atterra all' improvviso un elicottero. È quello dell' avvocato Gianni Agnelli che scende a consolare un Paese in lacrime, sostituendosi al ct pietrificato, con la frase: «Sono qui perché la vittoria ha cento padri, ma la sconfitta è orfana».

 

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Il blues dell' Azeglio necessita della chitarra acustica. Con la tuta «Italia», lui dura ancora due anni, poi un palo di Ruggiero Rizzitelli in Russia significa eliminazione dagli Europei e pensione anticipata per far posto a un altro romagnolo, più nevrotico e più rivoluzionario: Arrigo Sacchi. Altri tempi, altro calcio, altre interviste esclusive nella stagione in cui gli addetti stampa erano un optional e l' unico procuratore con diritto di parola era quell' Antonio Caliendo che aveva portato Baggio da Firenze alla Juventus. Se vogliamo azzardare un paragone in campo, le squadre di Vicini somigliavano a quelle di Fabio Capello.

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Muscoli, furbizia, l' imbucata di un 10 intelligente e una punta che ti stende. Valore attribuito al possesso palla: zero. Capello gli stava simpatico anche perché gli aveva salvato la vita a Copacabana quando stava per essere travolto da un' onda più carogna delle altre. Alla fine del racconto ripeteva: «Meglio restare con i piedi per terra». Nel calcio non sempre.

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