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LA VERSIONE DI MUGHINI - LA VITA-CAPOLAVORO DI ANNA PAPARATTI NEGLI AMBIENTI ARTISTICI ROMANI TRA I SESSANTA E I PRIMI OTTANTA, QUANDO OGNI MATTINO CHE VENIVA AL MONDO TI PORTAVA UN’IDEA O UNA LIBERTÀ O UN’ILLUSIONE IN PIÙ

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Giampiero Mughini a Dagospia

 

Caro Dago, se a ciascuno di noi fosse dato scegliere tra il creare un’opera-capolavoro - libro, quadro, film - o il vivere una vita-capolavoro, secondo te i più sceglierebbero la prima opzione o la seconda? Di certo è una vita-capolavoro quella che Anna Paparatti ha vissuto negli ambienti artistici romani tra i Sessanta e i primi Ottanta e che adesso lei racconta in un libro che l’editore De Luca ha appena pubblicato (Anna Paparatti, Arte-vita a Roma negli anni ’60 e ’70).

 

pino pascali e anna paparattipino pascali e anna paparatti

Nemmeno 200 pagine, ma quanto dense e saporose in ogni dettaglio del loro ricamo. Quant’è struggente ed elegante, e personalissima, la memoria della Paparatti nel rievocare a colpi rapidi di matita un tempo in cui Roma è stata capitale culturale e non solo in Italia.

 

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Quel ventennio che concorre con gli anni Venti nell’essere il più importante del secolo appena trascorso, forse il più importante: e non credo che questo mio giudizio sia alterato dall’essere io nato anno più anno meno quando è nata la Paparatti, e dunque dall’avere avuto vent’anni nei Sessanta, quando ogni mattino che veniva al mondo ti portava un’idea o una libertà o un’illusione in più.

 

Anche lei non romana, anche lei immigrata povera a Roma. A differenza di me e della mia vita non-capolavoro, una che ha subito sbattuto il muso contro il mondo dell’arte romana, a cominciare dalle lezioni apprese nella scuola di via Ripetta da Toti Scialoja. Bella, gli occhi verdi, luminosa, vorace di tutto e tutti - del loro meglio, della loro capacità di prendersi dei rischi intellettuali.

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Una che è andata a cena (o lei stessa ha preparato il riso per quei consessi poveri e affamati) con il meglio del secolo, una che indosssava abiti che le avevano progettato su misura un Jan Kounellis ancora sconosciuto e sua moglie. Una che se vedeva Jean-Paul Sartre mangiare un gelato lì accanto pensava intensamente a quello che l’uomo era e rappresentava per la cultura europea e quel pensiero le restava incastonato dentro.

da sinistra gian enzo sperone fabio sargentini anna paparatti pino pascali michelle coudray vittorio rubiu con gli occhiali maurizio mochetti alla biennale di venezia del 1968.da sinistra gian enzo sperone fabio sargentini anna paparatti pino pascali michelle coudray vittorio rubiu con gli occhiali maurizio mochetti alla biennale di venezia del 1968.

 

Una che se incontrava il tardo Giorgio De Chirico degli anni Cinquanta (quello che pronunciava nenie insopportabili contro l’arte d’avanguardia di cui negli anni Dieci lui era stato uno dei pionieri) gli si avvicinava e gli urlava in volto “Stronzo!”.

 

Non la finirei più se vi citassi gli episodi meravigliosi narrati con leggerezza ed eleganza in questo libro. E per forza. C’è che la nostra eroina poco più che ventenne ha fra i suoi amici più cari Pino Pascali, va in giro con una pistola (vera) di Pascali attaccata alla coscia a modo in un pistolero del West, e sarà lei e la sua amica Maria Pioppi a lanciare petali di rosa sulla bara dov’è racchiuso Pascali morto a 33 anni per un banale incidente di moto.

 

da destra il barone giorgio franchetti tano festa fabio sargentini e anna paparatti alla galleria lattico roma 1972. foto di claudio abateda destra il barone giorgio franchetti tano festa fabio sargentini e anna paparatti alla galleria lattico roma 1972. foto di claudio abate

C’è che Anna poco prima della morte di Pascali incontra e diventa la compagna (e madre di una loro figlia) di quel Fabio Sargentini che divide con Plinio De Martiis l’onore di avere diretto e governato le gallerie d’arte più vitali di quella Roma affascinantissima. La Tartaruga di Plinio e l’Attico di Fabio. Da dove passa tutto ma proprio tutto di ciò che ha scandito l’innovazione prepotente delle arti dei Sessanta.

 

I pittori della seconda scuola romana (Schifano. Festa, Uncini, Angeli), quello è ovvio. Ma non solo gli italiani. Nella Roma dei primi Settanta tempo arriva e ci resta Cy Twombly, che aveva cominciato col fare dei disegni dalle linee essenziali e sottili e li offriva a 80mila lire a botta. Arriva una sera a cena anche uno sconosciutissimo Sol Lewitt, predestinato a diventare caposcuola dell’arte concettuale.

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Anna cucina, e mentre bada alla figlia appena nata, e mentre la casa risuona di musiche indiane provenienti da dischi rarissimi acquistati in India, e Anna scrive stupendamente di amici frequentati o sfiorati, da Gino De Dominicis a Claudio Cintoli, di cui purtroppo in pochi ci ricordiamo.

anna paparatti fabio e fabiana sargentini nel 1972. foto di claudio aabateanna paparatti fabio e fabiana sargentini nel 1972. foto di claudio aabate

 

Ovvio che Anna fosse in prima fila quando all’Attico organizzarono una mostra consistente nel mettere l’uno accanto all’altro dodici cavalli in carne e criniera, e del resto lei c’era dappertutto e in ogni momento di quella nostra affascinante storia culturale. E come sono vivi e vitali i suoi ricordi, le sue nostalgie, i suoi lutti, le sue radissime mancanze di affezione per l’uno o per l’altro: per Sandro Penna, forse per Carla Accardi. Una vita-capolavoro. Lo dico con molta invidia. Da uno cui non è rimasto niente di niente di tutto quel pandemonio dei Sessanta-Settanta e degli amici avuti a cena in quegli anni. Niente di niente.

 

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