Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera"
pronto soccorso
Una signora incinta si presenta al pronto soccorso di Sassari lamentando perdite e dolori alla pancia. Le viene chiesto l'esito di un tampone molecolare. La donna non ne ha nessuno con sé e l'ostetrica va ad avvertire il medico, di cui poi riferisce il responso: «Non la possiamo visitare, motivi di sicurezza, torni con il tampone o se la situazione dovesse peggiorare».
La situazione peggiora subito, al parcheggio dell'ospedale: aborto spontaneo. Alla quinta settimana può succedere, è stata la stessa donna a riconoscerlo. Ma quello che non dovrebbe mai succedere è il modo. Una paziente incinta che si presenta in un pronto soccorso dicendo che sta male va visitata, punto. E, se serve un tampone, glielo si fa lì: dove, sennò? I medici sono talmente sotto pressione che qualunque critica nei confronti di uno di loro può sembrare ingiusta.
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Però questa storia racconta che cosa siamo diventati: l'emergenza perenne ci sta mangiando la testa e il cuore. Sono due anni che la paura del contagio domina ogni nostro pensiero, cancellando tutto il resto, e tutto il resto si chiama vita. Dal 2016 quella donna cercava di avere un bambino.
Chiedeva solo che qualcuno la ascoltasse, la capisse, la aiutasse a gestire l'ansia di una situazione che purtroppo volgeva già al peggio. Invece si è sentita trattare come un numero e una potenziale untrice. Va bene il distanziamento fisico, ma nessun decreto prevede il distanziamento emotivo. Ci si può guardare negli occhi anche indossando una mascherina.
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