“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
Stefano Feltri per il "Fatto quotidiano"
La crisi del debito pubblico sta precipitando verso quello che ormai sembra l'inevitabile epilogo: la bancarotta della Grecia, seguita (o preceduta) da una crisi bancaria. Nella notte di lunedì l'Eurogruppo ha deciso di rinviare l'erogazione della tranche sospesa del prestito agevolato fornito ad Atene dall'Europa: 8 miliardi che al governo servono quanto prima per pagare gli stipendi degli statali.
Evangelos Venizelos il ministro delle Finanze sostiene che in cassa ci sono soldi per arrivare fino a metà novembre. Ma non è chiaro se e quando i finanziamenti europei arriveranno: secondo le ultime stime la Grecia non rispetterà gli obiettivi di deficit nel 2012 (6,8 per cento invece del 6,5 e la troika - Bce, Commissione Ue, Fondo monetario - ancora deve pronunciarsi sullo stato delle riforme.
Il piano per la Grecia, insomma, non sta funzionando. Diventa ogni giorno più chiaro che Atene non ha speranze, nonostante l'annuncio di 7,1 miliardi di nuove tasse, nonostante la maxi-patrimoniale sulla casa inserita nella bolletta elettrica, il licenziamento di 30 mila statali di qui a un anno, l'ipotesi di eliminare i minimi salariali (sollevata dall'Eurogruppo e respinta da Atene).
La ragione del problema è evidente a tutti: se per risanare i conti si riduce in povertà la popolazione, il problema del debito non si risolve ma si aggrava perché sprofonda il Pil. E la Grecia si prepara al quarto anno di recessione. Ad Atene ci sono anche cinque ministeri occupati dal sindacato dei dipendenti pubblici.
Per questo nei vertici europei è condivisa ormai da tutti l'idea che l'unica strada è la cosiddetta ristrutturazione del debito: le grandi banche devono rassegnarsi a rivedere solo una parte dei soldi prestati ad Atene. L'accordo europeo del 21 luglio prevedeva perdite fino al 21 per cento e su base volontaria. Troppo poco, pensano i politici. Più che abbastanza, ribattono i banchieri, a cominciare da Joseph Ackerman di Deutsche Bank. In questa situazione di stallo, però, le cose stanno all'improvviso peggiorando: l'esplosione della crisi di Dexia, il gruppo franco-belga già nazionalizzato in parte nel 2008 e che Francia e Belgio si preparano ad aiutare ancora, segna l'inizio di una fase nuova.
Quella in cui la crisi del debito pubblico, lungi dall'essere risolta, devasta i bilanci delle banche al punto tale da renderle bisognose di aiuto pubblico. Ricapitoliamo: nel 2008 gli Stati salvano banche che avevano fatto le speculazioni sbagliate, nel 2010 gli Stati vanno in crisi, a cominciare dalla Grecia, e hanno bisogno dei soldi dell'Europa e della Bce, nel 2011 la crisi del debito pubblico si estende e le banche che dovevano aiutare gli Stati a risolvere i propri squilibri ora dovranno essere sostenute proprio da Stati già troppo indebitati per trovare credito a prezzi accettabili.
Comprensibile, quindi, che gli Stati Uniti comincino a essere davvero preoccupati. Il presidente della banca centrale americana, la Federal Reserve, Ben Bernanke ha riassunto così: "L'esposizione diretta delle banche statunitensi verso la Grecia è minima. Ma un default non organizzato potrebbe scatenare il panico sul mercato dei titoli pubblici, provocare il cedimento di altri Paesi e nuove tensioni sulle banche europee, con effetti considerevoli anche sul nostro sistema finanziario e sulla nostra economia". E figurarsi con quali effetti sull'economia europea.
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