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Daniele Martini per "Il Fatto Quotidiano"
Perfino tra i suoi colleghi in Confindustria c'era chi riteneva impossibile che la giovane e grintosa Antonella Mansi potesse diventare presidente della Fondazione Monte dei Paschi senza lasciare il delicatissimo compito di vicepresidente e responsabile dell'organizzazione degli industriali.
Parlando con Il Fatto proprio nelle ore in cui alla collega veniva affidato il prestigioso incarico bancario, c'erano imprenditori che davano per scontate le dimissioni di lì a poco. Per una ragione di ovvia opportunità , dicevano: per scongiurare un palese conflitto di interessi, per evitare che un'ombra si allungasse su tutta la struttura, per troncare prevedibili mal di pancia nella categoria. Si sbagliavano di grosso. Proprio negli stessi istanti la Mansi dichiarava il contrario, lasciando tutti a bocca aperta: "Resto al mio posto, a dimettermi non ci penso nemmeno. Il mio è solo un incarico e la mia designazione non è politica", sosteneva, facendo finta di non sapere ciò che invece tutti sanno.
Cioè che la scelta del presidente della Fondazione del Monte è più politica che politica non si può. Anzi, è una scelta fatta con il bilancino del manuale Cencelli, al Pd e alla banca che è la più politicizzata di tutte. Per quel lavoro alla Mansi saranno corrisposti 75 mila euro l'anno. Non molti, in confronto agli emolumenti che girano nel mondo del credito. Ma sufficienti anche questi a suscitare malumori in Confindustria.
Per quanto riguarda le rappresentanze esterne il codice confindustriale è molto rigoroso. Al paragrafo 3 elenca i doveri degli associati quando siano chiamati alla guida di organizzazioni ed enti esterni. In quei casi essi devono, per esempio, fornire una "informativa costante sullo svolgimento del loro mandato" e "assumere gli incarichi non con intenti remunerativi".
Come se queste disposizioni fossero poco più di acqua fresca, l'interessata ha dato la sua interpretazione stabilendo che le due cariche, confindustriale e bancaria, non battono l'una con l'altra. Eppure chi la frequenta le riconosce un rispetto rigoroso delle norme e un'adesione pedissequa alle regole dell'organizzazione, come nel caso dei codici Ateco, per esempio, le classificazioni merceologiche dell'Istat utilizzate per stabilire a quale tipo di federazione devono aderire le imprese, da lei fatte sempre rispettare dagli associati con meticolosa precisione.
C'è chi si chiede in forza di quali sicurezze la Mansi abbia escluso le dimissioni da vice. La risposta che circola tra gli imprenditori è che la giovane signora è la pupilla del presidente Giorgio Squinzi, non solo perché gode della sua piena fiducia ed è figlia di Luigi, industriale della grossetana Nuova Solmine di Scarlino che di Squinzi è stato vicepresidente in Federchimica.
Ma anche per un fatto molto più pedestre: dal maggio 2012 Squinzi siede su quella poltrona grazie proprio all'appoggio determinante della Mansi. Fu lei in quei giorni convulsi a pilotare in Giunta della Confindustria i voti decisivi dei 6 toscani che sommati al suo di presidente regionale consentirono a Squinzi di battere sul filo di lana il rivale Alberto Bombassei.
Durante tutta l'accesissima campagna elettorale l'editore fiorentino Giovanni Gentile, il livornese Gemignani, il sansepolcrino Giovanni Inghirami, l'aretino Giaccherini della Aba, Riccardo Marini di Prato e il presidente dei giovani, Jacopo Morelli, avevano piuttosto manifestato una spiccata preferenza per Bombassei. Poi il cambio di cavallo improvviso alla vigilia della Giunta: Squinzi vinse con 93 voti contro 82, Mansi diventò la sua vice e al suo posto come presidente toscano andò Pierfrancesco Pacini, editore pisano con un'infinità di incarichi, presidente da 23 anni anche della Camera di commercio locale.
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