DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
SERGIO MARCHIONNE E JOHN ELKANN
Valerio Berruti e Paolo Griseri per “Affari & Finanza - la Repubblica”
Le alleanze nel mondo dell' auto non finiscono mai. Per un industria che produce ogni anno oltre 70 milioni di automobili non ci sono molte alternative. Bisogna avere spalle grosse, numeri giganteschi. Globalità ed economie di scala. Il tutto per crescere sempre, superare l'avversario. Per questo il risiko delle alleanze è un «gioco» senza fine.
Soprattutto perché l' ingresso dei colossi delle tecnologie digitali è destinato a cambiare ancora le dimensioni necessarie a sopravvivere. Nel settembre del 2015, qualche giorno prima dello scoppio del dieselgate, Martin Winterkorn, il numero uno di Volkswagen, aveva fatto un' affermazione profetica: «In futuro l'automobile sarà un cellulare con le ruote».
Avremo infatti, nelle auto connesse, una serie di app che ci consentiranno di modificare il sistema di guida, di collegarsi coin il mondo esterno. Questo significa che Google e gli altri colossi dell' Itc dovranno investire parecchio, soprattutto nel campo dell'auto senza guidatore. Quanto? Secondo gli analisti per diluire l'investimento un colosso come Google avrebbe bisogno di costruttori in grado di vendere circa 20 milioni di auto, il doppio di quanto consegnano oggi le case in cima alla classifica delle vendite.
richard palmer sergio marchionne john elkann
Dunque di alleanze c'è ancor più bisogno rispetto a ieri. Un dilemma che riguarda tutti i costruttori ma soprattutto quelli di taglia media, che devono aggregarsi per non essere aggregati. E per questo ci si chiede, oggi più di prima, cosa cambierà con l'uscita di scena di Marchionne? Quali saranno i nuovi rapporti di forza tra i grandi gruppi industriali dell' automotive?
Il settore, infatti, è tutt'altro che consolidato. Carlos Ghosn, 64 anni, capo dell'alleanza Renault-Nissan a cui si è aggiunta anche Mitsubishi (da quest'anno al vertice mondiale delle vendite) aveva disegnato già da tempo uno scenario molto chiaro sull'argomento con non più di cinque grandi gruppi con vendite superiori ai sette milioni di pezzi l'anno. Al di sotto di quella quota, secondo il manager, non ci sarebbero prospettive di sopravvivenza.
E così ancora una volta il top manager di origine brasiliana ha dichiarato di voler realizzare entro il 2022 risparmi fino a 10 miliardi di euro. Naturalmente grazie ad economie di scala in grado a loro volta di finanziare l'aumento delle vendite annuali con un obiettivo di 14 milioni di unità l' anno.
Tagli dei costi Insomma se Ghosn punta a garantire più condivisioni possibili fra Renault, Nissan e Mitsubishi per tagliare i costi e aumentare la redditività, dall' altra parte molti altri gruppi provano a fare altrettanto. Fca compresa che seppur convinta di farcela (per ora) da sola è evidente che davanti si trova una strada in salita almeno per quanto riguarda gli investimenti già pianificati in modelli e tecnologie. Come il piano industriale da 45 miliardi annunciato a inizio giugno da Marchionne.
«Un' alleanza non si può escludere - ha detto Mike Manley - e la porta resta aperta perché Fca mantiene una gestione flessibile, come da insegnamento di Marchionne. Ma l'obiettivo è raggiungere gli obiettivi del piano industriale al 2022 con un gruppo forte e indipendente». E così se dal punto di vista della tecnologia c' è l' accordo con Waymo, la divisione di Google per la guida autonoma, contemporaneamente torna a galla una trattativa con la coreana Hyundai e la cinese Geely già proprietaria di Volvo, Lotus e del 9,7% di Daimler.
Senza escludere naturalmente Volkswagen e i «soliti » francesi di Psa.
PSA DOPO L'OPERAZIONE OPEL
JOHN ELKANN - MONTEZEMOLO - SERGIO MARCHIONNE
Il gruppo guidato da Carlos Tavares, dopo l'acquisizione di Opel, si muove sui mercati mondiali con il peso e la forza di un «colosso» da 4,3 milioni di veicoli venduti, di cui 2,5 milioni in Europa e forte di risultati record appena raggiunti nel primo semestre di quest'anno. Proprio grazie all'acquisizione della Opel, passata dal rosso ad una redditività del 5 per cento, le vendite sono aumentate del 40,1% nei primi sei mesi del 2018. Risultato raggiunto secondo Tavares appunto «riducendo i costi e migliorando i prezzi dei veicoli e concentrando l' attività sui segmenti di vendita più redditizi, come quello dei suv».
Ovviamente tutto questo non può bastare a un manager come Tavares, timoniere esperto e abituato a guardare ben oltre l' orizzonte. E quindi è proprio lui a rilanciare il tema delle alleanze: «Non ho alcuna fissazione su Fiat-Chrysler, né su un altro gruppo», ha detto il manager portoghese, classe 1958, aggiungendo anche di avere la certezza «che quando sei in buona salute economica, hai investito in buone tecnologie e sei capace di superare barriere regolamentari, puoi in ogni momento doverti confrontare con gruppi che non hanno fatto un lavoro di fondo e che hanno bisogno di appoggiarsi su qualcun altro.
E' lì che siamo presenti. Siamo aperti ad ogni proposta, sette giorni su sette, 24 ore su 24, ma per fare un deal bisogna essere in due».
GUARDARE OLTRE L' EUROPA
Nel caso specifico il nuovo gruppo dovrebbe guardare oltre l' Europa. Perché è vero che la Peugeot vende bene in Cina e l'Opel in Sudamerica ma entrambe sono assenti negli Stati Uniti, Canada e Messico, mercati che valgono quasi otto milioni di macchine. Quindi ecco riapparire all' orizzonte il gruppo Gm che dal vecchio continente è sparito e che dunque potrebbe sedersi al tavolo con Tavares proprio per tornare a guardare all'Europa. Sempre che Mary Barra, numero uno di General Motors, vista l'uscita di scena del «nemico» Marchionne non torni sui suoi passi e si sieda al tavolo con Mike Manley per ragionare sui nuovi assetti dei due gruppi o magari provare a prendersi proprio la Chrysler.
E a proposito di America, cosa farà la terza delle Big d'oltreoceano, la Ford? E vero che a Detroit è tornato lo slogan «One Ford» ma chi può dire quanto durerà e se invece qualche matrimonio all'orizzonte potrebbe farle cambiare strada? Magari proprio il piano di ristrutturazione appena annunciato che si tradurrà in un addebito di 11 miliardi di dollari nei suoi conti nei prossimi tre-cinque anni.
RIVEDERE IL DESIGN
La casa automobilistica di Dearborn ha solo indicato l' intenzione di rivedere il design di alcuni modelli, riallocare la sua liquidità in segmenti redditizi ed avere in progetto di stringere, se del caso, partnership strategiche. Una discussione lunga visto che Jim Hackett, ceo di Ford, ha rinviato a data da destinarsi l'appuntamento con i mercati finanziari previsto il 26 settembre. Insomma, lavori in corso. Resta l'Oriente che a parte la Cina, primo mercato mondiale ma vero e proprio mondo a parte, significa principalmente Giappone e Corea.
Il primo con un' economia piuttosto restia alle grandi alleanze ma più propenso a piccoli accordi su prodotti specifici o per questioni tecnologie. La seconda, invece, è spesso al centro di accordi che poi non vengono mai raggiunti. Compresi quelli ipotizzati in questi ultimi anni proprio con Fca. Ormai quasi tutti i grandi gruppi dell' auto si studiano a distanza. Cercano opportunità per la produzione futura di auto elettriche, inseguono partner tecnologici per l' auto a guida autonoma ma anche industriali. Perché poi le auto vanno prodotte e vendute.
LO SPETTRO DEI DAZI
Su questo scenario effervescente sta piombando in questi mesi lo spettro dei dazi e dei muri fiscali. Prima ancora di una questione economica, è un problema di clima generale dell' economia. Quella dell' auto è un'industria globale per definizione. Se il principio dei dazi è quello di detassare i prodotti locali e infliggere sovrapprezzi a quelli importati, la rigorosa applicazione di questo criterio impedirebbe semplicemente la produzione automobilistica.
Perché il 70 per cento dei componenti di un'auto non sono realizzati all' interno dello stabilimento di assemblaggio finale. Andare a distinguere le migliaia di parti di una vettura in base ai paesi d' origine, decidendo quali tassare e quali no, sarebbe come cercare di ricostruire il maiale partendo dal salame. Un' impresa impossibile. Così nella guerra del fisco si è deciso, per una sorta di regola non scritta, di mettere tasse e agevolazioni sulla base della sede dello stabilimento di assemblaggio finale.
Se la tendenza protezionista proseguirà, le case finiranno per sdoppiare gli stabilimenti da una parte e dall' altra dei muri fiscali. Un inevitabile aumento di costi che servirà a far contenti i politici per qualche anno prima di scoprire che aumentare i costi di produzione significa diminuzione dei margini. Con la conseguenza che gli unici ad avvantaggiarsi nel medio periodo saranno i costruttori cinesi, privi di vincoli fiscali nel mercato più grande del mondo.
È in questa complicata geopolitica che Fca deve cercarsi una strada per la grande alleanza. Sapendo che per un' azienda che fa gran parte dell' utile in Usa il punto di vista dell' amministrazione di Washington è decisivo. E che Donald Trump non vedrebbe di buon occhio né la cessione di Jeep ai cinesi né tantomeno ai tedeschi. Questo finirebbe per limitare le possibilità di alleanza del Lingotto alle sole due case americane, Gm o Ford. O, in alternativa, a sceglie un partner di dimensioni più ridotte, come Psa, per mantenere a Detroit lo scettro del comando del nuovo gruppo che ne nascerebbe.
Decidere le mosse I tempi di queste mosse, a meno di clamorosi colpi di scena, non dovrebbero essere immediati. Il nuovo numero uno di Fca, Mike Manley, avrà bisogno di tempo per scegliere i suoi collaboratori e definire le mosse. La prima sarà inevitabilmente quella di scegliere il nuovo responsabile delle attività europee al posto di Alfredo Altavilla.
Le ipotesi che circolano, in questo caso, coinvolgono sia manager interni, come il torinese Pietro Gorlier (oggi a capo di marelli) o il francese Olivier Francois, responsabile del marketing del gruppo e del brand Fiat. Ma circolano anche indiscrezioni su clamorosi ritorni come quello di Luca De Meo, attuale numero uno di Seat, o di un altro Marchionne boy come Antonio Baravalle, attuale ceo di Lavazza. Ipotesi, ovviamente, solo ipotesi. La decisione dovrebbe arrivare in questo caso a fine agosto, quando anche formalmente Altavilla lascerà l' incarico.
Anche queste scelte interne al Lingotto serviranno a capire come intende muoversi il gruppo nell' era Manley, quale nuovo rapporto esisterà tra le attività Usa e quelle nel vecchio Continente. Soprattutto in quale modo il nuovo amministratore delegato proverà a risolvere l' annoso problema della limitata presenza sul mercato cinese: «Il dossier della Cina - ha detto nella sua prima conference call del 25 luglio - è uno dei nostri impegni più importanti».
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