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    COME MAI OGNI RELIGIONE È ASSOCIATA AL CONSUMO (O ALLA RINUNCIA) A UN PARTICOLARE CIBO? LO SPIEGANO ELISABETTA MORO E MARINO NIOLA NEL LIBRO "MANGIARE COME DIO COMANDA": "ALL’ORIGINE DI QUELLO CHE NOI CHIAMIAMO "GUSTO" C’È UN INTRECCIO TRA PIACERE, DESIDERIO, PAURA, ACCESSIBILITÀ, IMPOSIZIONE, COMANDAMENTO. IL RISULTATO È QUEL CHE CHIAMIAMO "IDENTITÀ". LE CULTURE, PER POGGIARE IL LORO EDIFICIO IDENTITARIO SU FONDAMENTA SOLIDE, RICORRONO AGLI DÈI. DI TALE COSTRUZIONE IL CIBO È LA MATERIA PRIMA FONDAMENTALE..."


     
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    Estratto dall’introduzione di “Mangiare come dio comanda”, di Elisabetta Moro e Marino Niola (ed. Einaudi) pubblicato da "la Repubblica"

    mangiare come dio comanda di elisabetta moro e marino niola mangiare come dio comanda di elisabetta moro e marino niola

     

    L’uomo è ciò che mangia, ma Dio non è da meno. Perché da che mondo è mondo attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità. In un continuo rispecchiamento tra l’essere supremo e i suoi fedeli che lo trasformano nell’autore e al tempo stesso nel garante dei loro usi e consumi.

     

    All’origine di quello che noi chiamiamo «gusto» non c’è semplicemente un gioco di papille o una conseguenza automatica della disponibilità di risorse, ma un intreccio complesso e avvincente tra piacere, desiderio, paura, accessibilità, immaginazione, imposizione, sentimento, comandamento. In realtà, quel che facciamo è sempre alla confluenza tra materiale e immaginario, ideologia e liturgia, credenza e appartenenza. Il risultato è quel che chiamiamo «identità».

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    Un concetto in perenne trasformazione, ma che pure è necessario per identificarci nel flusso indistinto delle cose. In quello scorrere fluviale della realtà che Eraclito definisce panta rei. In questo senso le culture, per poggiare il loro edificio identitario su fondamenta solide e resistenti al tempo, ricorrono agli dèi. Concepiti come esseri immutabili, fuori dalla storia, liberi dalla morte e pertanto simboli di eternità e paradigmi di perfezione. Modelli da imitare.

     

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    Di fatto, dando forma e volto ai propri dèi, le società costruiscono la propria immagine ideale. E di tale costruzione il cibo è la materia prima fondamentale. Produttiva e riproduttiva. Costituente e ricostituente dei corpi come delle anime. Della carne come dello spirito. Ecco perché abbiamo scelto di indagare su analogie e differenze tra varie religioni attraverso la lente d’ingrandimento del cibo.

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    Per mostrare che «mangiare come Dio comanda» non è una semplice espressione proverbiale ma una password che svela i segreti di quel che siamo. Ma soprattutto di quel che facciamo, che sentiamo, che pensiamo e che crediamo ogni volta che ci mettiamo a tavola. E visto che ogni Dio comanda cose differenti, la sfida più ardua consiste nel trovare dei menu che vadano bene a tutti, ossia delle ricette di convivenza.

     

    CONVIVIALITÀ E CONVIVENZA

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    La convivialità non ha valore solo all’interno di ciascuna religione, ma anche là dove diverse fedi si incontrano. L’esempio più illuminante è costituito dalla città di Sarajevo, dove per sei secoli è stata in vigore una legge non scritta, ma rispettata da tutti. Il suo nome èkomšiluk («buon vicinato»). Un vero e proprio manifesto dell’ospitalità. Secondo un’antica consuetudine, tipica delle comunità multireligiose, quando si invitava qualcuno a cena nessuno chiedeva all’altro la fede di appartenenza.

     

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    Ma per rispetto di tutti si evitavano i cibi e i comportamenti proibiti dalle varie fedi. La somma di tutti i tabú alimentari richiedeva ai padroni di casa una strategia culinaria di precisione che escludeva il maiale per non offendere i musulmani, polpi e vongole per non mettere in imbarazzo gli ebrei, la selvaggina per non infastidire i buddisti, il manzo per non umiliare gli induisti. La parola komšiluk si forma dal turco komsu che significa «vicino».

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    Ma che nelle lingue e nelle culture balcaniche subisce uno slittamento semantico positivo e passa a indicare uno spazio di mediazione, una zona franca dove le diverse religioni depongono le armi e si spogliano dei loro caratteri più contundenti per ritrovarsi in pace.

     

    Accogliere e fare stare bene i «vicini di casa» è fondamentale affinché i motivi di unione prevalgano su quelli di divisione (Odak 2022; Di Mare 2011). Di fatto, lakomšiluk ha funzionato a lungo e bene fino alla guerra della ex Jugoslavia, quando una propaganda scellerata ha messo tutti contro tutti.

     

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    Cancellando un’antica tradizione di buon vicinato. Che per secoli era stata più sacra delle religioni stesse, al punto che ogni casa aveva due porte, una che dava sulla strada e una che dava sul retro e conduceva dritto a quella del vicino. Il rispetto reciproco e il mutuo soccorso erano i fondamenti della comunità.

     

    Tutti partecipavano alle feste e ai riti religiosi delle famiglie del quartiere, mettendo in atto regole condivise da generazioni. Al punto che in ogni casa erano presenti servizi di piatti, bicchieri, pentole e posate dedicati esclusivamente alle festività. Non per ragioni estetiche, ma di purezza rituale. Per rispettare la regola della Torah ebraica secondo cui latte e carne non devono mai incontrarsi, nemmeno di striscio, né materialmente né, tantomeno, simbolicamente, in una padella o in una zuppiera.

     

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    La purificazione delle stoviglie deve essere garantita in maniera assoluta e solo l’utilizzo di utensili appositamente dedicati la assicura per davvero. Così anche i cristiani, che volentieri mescolano il formaggio con la carne, oppure cucinano i legumi con la pancetta, pur ritenendo che basti un colpo di spugna per lavare via quel che si è cucinato, si adattavano alla regola ben più rigida degli ebrei, per i quali il sapone pulisce ma non purifica.

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