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Paolo Mastrolilli per “La Stampa”
«Tu conosci il posto che hai nel mio cuore, perciò io chiedo ad Allah di riportarci insieme». Così scriveva Nazih Abdul Hamed al Ruqai, anche noto come Abu al Libi, rivolgendosi al proprio mentore Osama bin Laden il 13 ottobre del 2010, appena dopo la sua liberazione dalle carceri iraniane. Era finito laggiù per cercare rifugio dopo l’invasione americana dell’Afghanistan, e voleva riprendere i contatti con il leader di al Qaeda. Venerdì notte Al Libi è morto in un ospedale di New York, a causa delle complicazioni seguite a un intervento chirurgico per curarne il cancro al fegato, neanche due settimane prima del suo processo fissato per il 12 gennaio.
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Si conferma così la maledizione che sembra perseguitare i tentativi degli Usa di portare davanti alla giustizia i terroristi che li hanno colpiti, insieme alle denunce e le teorie cospirative che nasceranno da questo caso.
Al Libi, come dice il nome di origine libica, si era unito ad al Qaeda quando Osama aveva trovato rifugio in Sudan. Esperto di computer, aveva lavorato per preparare gli attentati del 7 agosto 1998 contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam, il primo grande attacco dell’organizzazione di Bin Laden in cui erano morte oltre 200 persone. Lui nel frattempo aveva ricevuto asilo in Gran Bretagna, era stato arrestato, liberato, e si era rifugiato in Afghanistan. Secondo i procuratori americani, faceva parte del gruppo che aveva deciso gli attentati dell’11 settembre 2001.
Dopo il rilascio dalle prigioni iraniane era tornato in Libia, con l’autorizzazione di Al Qaeda, per partecipare alla rivolta contro Gheddafi. Secondo la moglie, Um Abdullah, aveva tagliato ogni legame col terrorismo. Secondo i procuratori americani invece continuava a lavorare per al Qaeda, in posizioni di responsabilità, e nell’ottobre del 2013 la Delta Force lo aveva catturato nel centro di Tripoli.
Lo aveva trasferito sulla nave americana San Antonio, dove era stato interrogato dalla Cia, e poi rinchiuso nel Metropolitan Correctional Center, dove aspettava il processo del 12 gennaio. Si sapeva che soffriva di epatite C, ma dopo la cattura i medici americani aveva scoperto che aveva il cancro al fegato. Tre settimane fa era stato operato, era andato in coma, ma quando si era ripreso era tornato in carcere.
La moglie ora accusa gli Usa di aver provocato la sua morte con il modo in cui lo hanno trattato, e con il ritorno affrettato dall’ospedale alla cella: «Accuso il governo americano di aver rapito, maltrattato e ucciso un uomo innocente». Il suo avvocato, Bernard Kleinman, nega che al Libi avesse organizzato gli attentati del 1998, ma le sue lettere trovate nella casa di Abbottabad dove fu ucciso Osama provano almeno il coinvolgimento con Al Qaeda.
Le teorie cospirative già sospettano un omicidio procurato, per evitare l’imbarazzo di un processo a rischio, ma il vero problema di fondo resta come fare giustizia con i terroristi. Il giudizio del 12 gennaio comincerà comunque, contro altri due imputati, mentre a febbraio andranno in tribunale Abid Naseer e altri tre uomini del Queens, accusati di preparare attacchi in Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti, dove volevano far saltare zaini esplosivi nella metropolitana di Manhattan.
tredicesimo anniversario 11 settembre 46
Incerto, invece, resta il futuro del processo a Khalid Sheikh Mohammed, mente degli attentati dell’11 settembre. In principio l’amministrazione Obama voleva portare anche lui a giudizio nella città che aveva colpito, ma l’opposizione del Congresso per motivi di sicurezza aveva costretto l’allora ministro della Giustizia Holder a ripiegare sul dibattimento a Guantanamo.
Vari problemi procedurali, però, hanno frenato anche questo tribunale: dimissioni dell’avvocato di Mohammed, Jason Wright; interferenze dell’Fbi con i legali; rischio ora di nuove rivelazioni imbarazzanti sull’uso di metodi di interrogatorio assimilati alla tortura. Gli attacchi dell’11 settembre, e le altre operazioni sanguinose di al Qaeda, rischiano di restare fra i crimini più gravi senza processi, colpevoli e condanne.
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