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Arturo Zampaglione per “la Repubblica”
“Sacerdote & Calligrafo”, c’era scritto sul suo biglietto da visita. Per tutta la vita, infatti, padre Robert Palladino, nipote di uno scalpellino emigrato dall’Italia per la costruzione della cattedrale di Santa Fe, e morto ora in Oregon a 83 anni, aveva coltivato, assieme, la sua passione per la scrittura e la sua fede cattolica.
A 17 anni era già un monaco trappista, dedicandosi – nel silenzio della clausura - alla preghiera, al lavoro manuale e alla stretta osservanza dei cistercensi. Ma intanto studiava gli alfabeti, da quello fenicio a quello ebraico, analizzava le epigrafi greche e romane, e perfezionava l’arte antica della calligrafia:
diventandone un maestro a livello internazionale e finendo per insegnarla agli universitari del Reed College di Portland. Tra quei giovani ce ne fu uno, nel 1972, il quale, pur in procinto di lasciare gli studi, rimase affascinato dalle sue lezioni: Steve Jobs.
Il fondatore di Apple ha sempre ammesso il debito di gratitudine per Padre Palladino, che considerava un vero maestro: perché lo aveva aiutato a capire i segreti tipografici, a imparare l’eleganza dei segni e del design, e soprattutto a impostare il tipo di caratteri della casa di Cupertino.
«Appresi da lui che cosa fossero i serif (i caratteri tipografici con grazie, ndr), quanto fosse importante lo spazio tra le lettere e come raggiungere la bellezza tipografica», disse Jobs nel 2005, parlando alla cerimonia annuale per le lauree dell’università di Stanford. «Fu una esperienza bellissima – aggiunse - che mi portò a esplorare tematiche storiche ed estetiche in modo slegato dalla scienza e quindi fascinoso.
Dieci anni più tardi, quando stavamo progettando il primo MacIntosh, quegli insegnamenti mi tornarono in mente. Così il Mac fu il primo computer ad avere bellissimi risultati grafici. E se non fossi entrato quasi per caso nell’aula di quel corso universitario, il Mac non avrebbe avuto i font (tipi di carattere) spaziati in modo proporzionale, che poi sono stati copiati da Windows».
Lui, Padre Palladino, pur orgoglioso dei successi del suo alunno più famoso, mantenne sempre un atteggiamento quasi distaccato. «Jobs? Era un ragazzo piacevole» si limitò a dire tre anni fa in una intervista al Catholic Sentinel. Non si degnò neanche di andare a vedere Jobs, il film del 2013 sulla vita del papà di Apple, in cui il suo ruolo del monaco-calligrafo veniva interpretato da William Mapother. E per tutta la vita non ha mai né usato né posseduto un computer: «Ho una mano, ho una penna, e mi basta così», ripeteva ai visitatori increduli, secondo quando ha riferito il New York Times.
A dispetto della scelta religiosa e del paziente lavoro di calligrafo, secondo la tradizione millenaria, il maestro di Jobs era anche un personaggio a suo modo irrequieto. Consacrato sacerdote nel 1958, fu preso in contropiede dalle riforme del Concilio Vaticano II e soprattutto dal tramonto del silenzio monastico, dei canti gregoriani e del latino.
Così nel 1968 lasciò i Trappisti. «Non si può condurre una vita del genere se non la sia ama fino in fondo», commentò nella sua autobiografia: che non fu mai pubblicata (e che ovviamente fu scritta in bella grafia).
L’anno dopo studiò in Iowa con un famoso calligrafo, padre Edward Catich, e più tardi cominciò a insegnare a Reed College, dove è rimasto fino al 1984, quando è andato in pensione. Quel corso, che ormai non esiste più, era considerato il più avanzato negli Stati Uniti per artisti del ramo, tipografi e designer.
Grazie a una dispensa di Paolo VI, Robert Palladino si sposò con una clarinettista dell’orchestra sinfonica di Portland ed ebbero un figlio. La moglie morì nel 1987, lui fu poi riammesso alla vita sacerdotale e si dedicò negli ultimi anni alle parrocchie dell’Oregon, a insegnare in altre università dello Stato e a offrire i suoi servizi alle famiglie che volevano avere un certificato di battesimo scritto a mano o ai neolaureati in medicina che volevano esporre il diploma.
E a tutti, il maestro di Jobs, ripeteva che la calligrafia non era solo un insieme di belle lettere, ma un modo in cui quelle stesse lettere potevano essere elegantemente intrecciate l’una con l’altra per formare delle parole, che poi a loro volta, una dopo l’altra, formavano il testo intellegibile.
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