RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Manuela Pivato per www.nuovavenezia.gelocal.it
Adesso che sono novanta, solo la voce si è fatta un po’ più bassa, ma forse è un vezzo, ed è l’unica concessione che Arrigo Cipriani rende a un’età che non significa nulla.
L’unico oste ad avere il nome di un bar, tre figli, sette nipoti, più l’ultimo, che si chiama Facundo ed è un bambino uruguaiano adottato dal figlio Giuseppe, dodici libri, venticinque locali sparsi nel mondo, appartamento alle Zattere, barca per raggiungere Torcello dove lo aspettano cinque ettari di carciofi, la nuova Casa Cipriani a Palazzo Bernasconi a Milano che inaugurerà a settembre; tutto questo monumento d’uomo, testimone di molti tempi, custode di stile, premiato, invidiato, inutilmente copiato, sicuramente molto amato, mai senza cravatta, mai senza sorriso, spesso controcorrente, sempre arguto, leggero, sottile, è il racconto di una lunga vita felice, ma non regalata.
Disciplina, accoglienza, semplicità lo guidano da quando, nemmeno ventenne, varcò la porta dell’Harry’s Bar all’ombra del padre Giuseppe.
Il “Bar”, come lo chiama, che l’anno scorso l’ha preceduto nel compleanno tondo tondo; l’Harry’s, come invece lo chiamano i veneziani, che per lui è la casa, per tutti gli altri è il luogo dove il mondo s’incrocia e si riconosce, così, nel modo più décontracté possibile; Woody Allen seduto accanto a Elton John, un tempo Ernest Hemigway, Peggy Guggenheim, Orson Welles; tra pochi giorni gli artisti e i collezionisti della Biennale, come un’equazione senza resti.
Il 23 aprile compie novant’anni; è soddisfatto della sua vita?
«Sono felice di aver raggiunto questa età lavorando all’Harry’s Bar e di aver contribuito al nostro sviluppo nel mondo».
Lei ha iniziato a lavorare in calle Vallaresso giovanissimo.
«Ero ancora un ragazzo. Sono stato alla cassa per cinque o sei anni senza capire molto. Guardavo, osservavo. Poi pian piano ho iniziato a rendermi conto che uno spazio, così come un oggetto, può essere di lusso solo se ha un’anima, e quest’anima arriva da chi l’ha creato. Dev’essere per via di questa dimensione immateriale che il proprietario del fondo del nostro primo ristorante a New York, sulla 5th Avenue ha deciso di non farci pagare l’affitto».
Per via dell’anima?
«Probabilmente perché gli basta averci come inquilini».
Come si prepara al compleanno?
«In realtà mi preparo tutti giorni e tutti i giorni mi dico: guarda che bello, sono arrivato fin qui. È un regalo della vita».
Nessun festeggiamento?
«Per gli ottant’anni mio figlio organizzò una cena a sorpresa alle Carampane. Fu molto affettuoso, ma quel giorno compresi che, d’ora in avanti, avrei contato gli anni che mi restavano sulle dita di due mani».
E quest’anno?
«Faremo una colazione tutti insieme, per il resto lavorerò come ho sempre fatto. Pensi che mio padre è morto di venerdì, perché sapeva che il suo funerale sarebbe stato il lunedì successivo, giorno di chiusura del Bar».
Non sembra sentire il peso del tempo che passa. Cosa c’è dietro la sua forma fisica?
«Per restare sani bisogna mangiar bene e fare movimento in modo da aiutare il corpo a non fermarsi. Sa perché i vecchi camminano piano? Perché hanno dolori dappertutto».
La dieta di Arrigo Cipriani.
«Sono intollerante a glutine e lattosio, quindi niente pasta né formaggi. Per il resto mangio riso, pesce, carne, anche quella rossa. Poche verdure, principalmente i miei carciofi di Torcello e i fagioli. Niente dolci, zero zuccheri. Pochissimo vino, lo assaggio solo. Fino a qualche anno bevevo Martini, l’unico gusto secco al mondo, poi ho smesso anche se mi è costato molto, più della fatica di smettere di fumare».
Attività fisica?
«Sono cintura nera di karate. Oggi faccio movimenti di difesa e di attacco lentamente, una sorta di Tai Chi. Poi anche manubri. Mezz’ora a giorni alterni. Poi, naturalmente, c’è la disciplina».
La sua?
«Mi sveglio molto presto da quando ho scoperto che l’alba è la parte più bella del giorno. È lunghissima, sembra non aver e mai fine. La sera vado a letto verso le 23 e leggo».
Cosa sta leggendo?
«Mordecai Richler. Se un libro mi piace, posso rileggerlo anche tre o quattro volte».
In passato aveva detto che uno dei vantaggi della vecchiaia è poter fingere di essere smemorato.
«Sì, solo che adesso non faccio più finta».
Non le credo.
«Lo giuro. Spesso non ricordo i nomi o non riconosco le persone. Una volta salutai per nome un cliente che era venuto al Bar due anni prima. I camerieri mi guardarono sorpresi. In realtà avevo scritto come si chiamava in un pezzo di carta. Ecco perché non l’avevo dimenticato».
Qualche altro vantaggio?
«Moltissimi. Le cose appaiono molto più chiare, non si drammatizza perché si capisce che non ne vale la pena. E poi ti arrabbi meno, sei più tollerante. Ti rendi conto che la vita non è poi quella cosa seria come sembra. Tutti i problemi si sciolgono».
Lo svantaggio che le pesa di più?
«Il calo della forza fisica. Sai che devi fare una corsa e non la fai. Un pugno, però, lo posso ancora dare. L’energia che ho dentro, invece, è rimasta uguale».
Lei ha passato settant’anni in questo locale che chiama la Stanza, forse anche per senso di responsabilità nei confronti di suo padre.
«Finché mio padre era vivo lavoravo sei giorni a settimana, praticamente senza interruzione. Quando è morto mi sono sentito come liberato dall’orario. Per il resto sono consapevole di dovergli tutto. È stato lui a inventare un’accoglienza fatta di mille piccoli particolari».
Quali?
«Il riscaldamento a pavimento, le posate piccole e larghe, i tovaglioli di lino, per cui non ti accorgi nemmeno di pulirti la bocca. I tavoli sono bassi e comodi, così i clienti si sentono a proprio agio. Non c'è musica, perché la musica sono le voci, il tintinnio dei bicchieri, il rumore dei piatti. Soprattutto, non imponiamo nulla ai nostri clienti».
Si è mai sentito soffocare?
«Mai. Mi piace paragonare l’Harry’s Bar a un giornale. La mattina è vuoto, come una pagina bianca. I cibi non sono cucinati, i cuochi si stanno preparando, i clienti devono ancora arrivare. È una cosa senza vita, una pagina da scrivere. Poi entra l’uomo e tutto si anima, ogni giorno in maniera diversa. Per questo sono sempre felice di essere qui».
Il suo pregio?
«Sicuramente il saper prendere la vita con leggerezza. E poi la costanza. Credo di essere generoso, ma questo devono dirlo gli altri».
Un difetto?
«Sono insofferente se mi trovo in compagnia di gente noiosa. Mi spazientisco quando devo ascoltare le malattie degli altri, anche perché non interessano a nessuno. E poi sono pigro».
Non si lamenta mai?
«Mai. Dico sempre che sto benissimo, anche se non è vero, così gli amici ne gioiscono e i nemici si rodono. Non credo di aver mai detto di essere stanco».
Le piace sempre la velocità?
«Sempre. La prima auto fu una Fiat Topolino, che trasformai in un mostro a due carburatori. Oggi ho una Mercedes AMG da 500 cavalli che va da 0 a 200 chilometri in undici secondi con freni speciali che fermano la macchina in due secondi e questo mi dà sicurezza. Poiché è un oggetto di lusso, ha un’anima; poiché ha un’anima, la mia Mercedes ha i propri gusti, ad esempio odia la Porsche. Insieme ci divertiamo molto».
Se avesse la possibilità di ritrovare per un minuto suo padre cosa gli direbbe?
«Gli farei vedere tutto quello che ho fatto insieme a mio figlio Giuseppe. Sarebbe felice. Ancora oggi penso spesso a cosa avrebbe fatto lui al mio posto. E mio figlio è uguale a lui. Stessa volontà mai di calcolo, stesso istinto, stessa visione d’insieme, il cuore sempre oltre l’ostacolo».
Rimorsi o rimpianti?
«Nessuno. Solo il fatto che la morte è dietro di me».
Ne ha paura?
«Assolutamente no. È una cosa naturale, spero solo che arrivi il più tardi possibile».
È credente?
«Sono ateo, quindi per me dopo la morte non c’è niente. Quando arriverà, sarà come scivolare in un’anestesia».
Lei ha già scelto l’incisione della sua lapide.
«Sì. Sto da Dio».
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