UNA BEFFA CHIAMATA MONOPOLI – IL GIOCO CREATO A INIZIO '900 AVEVA INTENTI PROGRESSISTI, MA IN MANO ALLA “PARKER BROTHERS” DIVENTO' UN INNO ALLA RAPACITÀ CAPITALISTA - ORA ESCE LA VERSIONE "TRONO DI SPADE"

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1 - “MONOPOLI” SI TRASFORMA IN “TRONO DI SPADE”

Da “la Repubblica” - È stata la stessa tv via cavo Hbo ad annunciare che sarà messa in vendita un’edizione speciale del gioco “Monopoli” dedicata alla serie Il trono di spade. Sul quadrante uova di drago e corvi con tre occhi, al posto di case e alberghi ci saranno castelli e villaggi. Sarà vietato ai minori di 18 anni.

 

2 - LA VERA STORIA DEL MONOPOLI

Giuliano Aluffi per “la Repubblica”

 

IL 6 novembre del 1935, ad Arlington, Virginia, il burbero settantenne George Parker, magnate dei giochi da tavolo Parker Brothers, arriva dal Massachusetts per incontrare la donna che teme di più al mondo. Una signora spiritosa, una sua coetanea: Elizabeth Magie Phillips, o “Lizzie”, come la chiamavano tutti. «Non approvo il messaggio politico del suo gioco» esordisce Parker.

 

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«Però sono interessato ad acquistarne i diritti». Lei è estasiata. Finalmente il gioco che aveva brevettato trent’anni prima, il Landlord’s Game, potrà essere pubblicizzato e distribuito su vastissima scala. E soprattutto il suo messaggio politico diffondersi. «Lo scopo del gioco non è solo divertire, ma mostrare come, con le leggi vigenti, i proprietari terrieri siano privilegiati rispetto agli altri imprenditori, e come il sistema della tassa unica scoraggerebbe gli speculatori» spiegava ai giornali dell’epoca.

 

Nel ‘35 già molti americani conoscevano il Landlord’s Game, non tanto nella versione ufficiale pubblicata dal 1910 dalla Economic Game Company di New York, quanto in versioni ricopiate su cartoncino e personalizzate con varianti di ogni tipo. L’idea della tassa unica era stata lanciata nel 1880 dal politico Henry George nel libro-manifesto Progress and poverty. Ma solo dopo il crollo di Wall Street, nel 1929, si era creato terreno fertile per idee più progressiste.

 

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Così, quel giorno a Magie, l’offerta di Parker — cinquecento dollari e nessuna royalty — sembrò allettante più per l’auspicato successo pedagogico del gioco che per la somma. E accettò. Due giorni dopo, mandò a Parker questo biglietto: “Addio all’amato frutto del mio ingegno. Addio, mio caro gioco. Mi separo da te con rimpianto, ma ti sto dando a qualcuno che potrà fare più di quanto possa fare io per darti successo. Ti raccomando di non deviare dal tuo alto scopo, dalla tua vera missione! Ricorda: il mondo si aspetta molto da te”.

 

Ma George Parker aveva altri piani per il Landlord’s Game. Quel giorno era andato ad Arlington per ucciderlo, ossia comprarlo e produrlo in modo che Lizzie Magie non desse fastidi (soprattutto legali) alla vera punta di diamante della Parker Brothers: il neonato Monopoly. Era stato il Landlord’s Game a introdurre l’idea di una tavola da gioco che riproduce una città con le vie, quattro stazioni ferroviarie, un parcheggio e una prigione, sulla quale muoversi tirando i dadi, pagando tasse, pescando carte con probabilità e imprevisti e commerciando in proprietà. L’unica differenza tra il Landlord’s Game e il Monopoly era lo spirito: progressista il primo, capitalista il secondo.

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Ma cominciamo dall’inizio. Nel 1906 Magie si era trasferita dalla sua piccola Canton, nell’Illinois, a Chicago. E si era ritrovata subito in difficoltà: il salario da stenografa, dieci dollari la settimana, non bastava. Così mise un’inserzione sui giornali: “Offresi giovane schiava americana. Bruna, grandi occhi grigio-verdi, labbra piene, denti splendidi. Non bella, ma attraente. Rare capacità drammatiche. Intrattenitrice nata. Religiosa, ma non pia. Abilissima dattilografa, ma la dattilografia è un inferno”.

 

La sua provocazione fece il giro del mondo. Lizzie Magie rivelò al Washington Post che il suo intento era sottolineare le scarse prospettive di emancipazione sociale offerte alle donne. «Se potessimo essere ridotte allo stato di macchine, che hanno solo bisogno di essere oliate, forse dieci dollari basterebbero. Ma non siamo macchine».

 

«Mostrò un’audacia straordinaria per una donna del suo tempo» racconta oggi alla Domenica di Repubblica Mary Pilon, giornalista del New York Times che sta per pubblicare negli Usa The monopolists: obsession, fury and the scandal behind America’s favorite board game ( Bloomsbury), libro- inchiesta in cui ripercorre, a partire dal Landlord’s Game, la vera storia del Monopoli. Eccola dunque.

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All’inizio il Landlord’s Game si era diffuso negli Stati Uniti tramite passaparola. Chi ne veniva a conoscenza tendeva a costruirsi da sé l’occorrente riproducendo con qualche variazione la mappa. Fu così anche per Daniel Layman, pubblicitario, che nel 1931 produsse la sua versione del “gioco del monopolio” (come ormai lo chiamavano tutti), cambiò il nome di qualche via e corredò il tutto di soldi finti introducendo un elemento nuovo: casette in miniatura, di legno di artigianato russo, che gli erano state regalate da un amico.

 

Infine ribattezzò il gioco Finance perché non si confondesse con quello di Magie. Il gioco si diffuse ad Atlantic City, soprattutto nella comunità dei quaccheri. Poi, a Filadelfia, un tale Charles Todd ricopiò una delle tavole arrivategli da Atlantic City: copiando commise però un errore, e i “Marven Gardens” della città del New Jersey divennero i “Marv in Gardens”. Il caso volle che Todd iniziasse a giocare con un commerciante caduto in disgrazia, Charles Darrow, il quale un giorno chiese all’amico di scrivergli tutte le regole su carta.

 

Darrow domandò poi a un vicino, Franklin Alexander, vignettista, di ridisegnare la tavola che prese l’aspetto del Monopoli odierno. Quindi lo commercializzò con i disegni di Alexander e i nomi delle vie riscritte da Todd, Marvin Gardens compresa. Nel marzo 1935, ottant’anni fa, la svolta: Robert Barton, presidente della Parker Brothers, compra la versione di Darrow per settemila dollari. Per cautelarsi gli chiede di scrivere in che modo avesse ideato il Monopoly. Darrow gli consegna un testo dove si presenta come il solo inventore delle regole e dei nomi del gioco, nonché come unico illustratore. Nessuna menzione né al Landlord’s Game, né a Finance o al suo vicino Alexander.

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Finisce così la storia di Lizzie Magie e inizia quella del successo planetario del Monopoly. Un finale con un paradosso e un ironico prequel. Il paradosso è fin troppo ovvio: il gioco nato per diffondere maggior equilibrio economico si trasfigura nel simbolo del capitalismo americano e diventa, esso stesso, un monopolio. Meno evidente il precedente.

 

Nel 1897 una certa Lizzie Magie, aspirante scrittrice, attrice dilettante e attivista politica, aveva pubblicato sulla rivista Godey’s un racconto intitolato Il furto di un cervello . Narrava di una giovane scrittrice che si affidava a uno psicoterapeuta per vincere la paura dell’ipnosi. Dopo un po’ di sedute, al momento di pubblicare il libro, la donna si accorge che in libreria il suo romanzo esiste già. È un bestseller. Solo che la firma in copertina non è la sua. È quella dello psicoterapeuta.