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I GIUDICI SUL ROGO - FACCI: ''LE CONDANNE AI MANAGER THYSSEN METTONO FINE A UNA STORIA TRAGICA. MA LA CASSAZIONE CHE NON ASCOLTA IL PROCURATORE GENERALE, CHE CHIEDEVA PENE MENO SEVERE, È UN BRUTTO SEGNO. COME SE DUE ANNI IN PIÙ O IN MENO FACESSERO LA DIFFERENZA, ANZI LA GIUSTIZIA''

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Filippo Facci per ''Libero Quotidiano''

 

PROTESTE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME THYSSEN PROTESTE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME THYSSEN

Al processo per il rogo alla Thyssenkrupp, dopo otto anni, è stata posta la parola fine: ma forse non c' è troppo da gioirne. La Cassazione ha confermato la condanna emessa dalla Corte d' Appello di Torino un anno fa: e questo nonostante il procuratore generale, ieri mattina, avesse chiesto il rifacimento del processo perché le pene gli parevano troppo alte. I familiari delle vittime erano subito esplosi in grida di rabbia, ma le tesi del procuratore generale apparivano più che fondate, anzi.

 

Poco importa: l' ex amministratore delegato Harald Espenhahn ha preso nove anni e otto mesi, i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz sei anni e dieci mesi, il manager Daniele Moroni sette anni e sei mesi, l' ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno otto anni e sei mesi, infine il responsabile della sicurezza Cosimo Cafuer sei anni e otto mesi. I quattro imputati italiani l' avevano preannunciato: se non sono già in carcere da ieri sera, vi entreranno questa mattina.

 

FAMIGLIE VITTIME THYSSEN AL PROCESSO FAMIGLIE VITTIME THYSSEN AL PROCESSO

Vi è da chiedersi se i giudici dei processi mediaticamente esposti, oggigiorno, non vadano tanto difesi dai politici (i quali, semmai, a ogni attacco conferiscono status e medaglie alle toghe di turno) ma vadano difesi dal fantasma della pretesa «opinione pubblica», dal giustizialismo della gente comune, dai parenti, dai comitati, dalle voci di popolo sobillate e amplificate dai microfoni dei giornalisti. È questo il peso che grava sui giudici, oggi: non quello di una screditata classe politica.

 

Ieri mattina, il fatto che il pg della Cassazione avesse chiesto l' annullamento delle condanne e la rideterminazione delle pene per omicidio colposo plurimo (concedendo alcune attenuanti che erano state negate) è stato infatti accolto in questo modo: «venduti», «bastardi», «vergognatevi, non c' è giustizia per i nostri morti»; un parente, rivolto a un condannato a 7 anni e 6 mesi, gli ha urlato «spero che muoia bruciata anche la sua famiglia». Poi, in serata, dopo la conferma delle condanne, si esultava per la «vittoria, una vittoria per noi e per tutte le vittime morte sul lavoro».

 

Il rogo alla Thyssenkrupp fu qualcosa di orrendo: nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 alle fonderie di Torino scoppiò un incendio e morirono uno dopo l' altro, nell' arco di venticinque giorni di agonia, sette operai: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone.

ROGO DELLA THYSSEN A TORINOROGO DELLA THYSSEN A TORINO

 

Un operaio che si salvò, Antonio Boccuzzi, divenne deputato per il Partito democratico, e anche lui, ieri mattina, con toni più misurati, declamava il suo pubblico «vergogna»: «Le richieste della procura sono un fulmine a ciel sereno, lo stesso vale per il rischio che i due imputati tedeschi possano scontare in Germania una pena dimezzata». Già, ma perché?

 

Thyssen operaiThyssen operai

Semplicemente perché, nell' ordinamento tedesco, l' omicidio colposo ha un tetto massimo di cinque anni, e gli accordi internazionali tra Italia e Germania (una direttiva Ue) prevedono che gli imputati possano scontare la pena nel loro paese, secondo le norme del loro paese. E così sarà. Ma torniamo all' iter processuale: parliamo di un dibattimento alla cui fine, in primo grado, non hanno assolto nessuno, e in cui un amministratore delegato prese 16 anni e mezzo per omicidio volontario con la formula del «dolo eventuale».

 

Il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello aveva chiuso le indagini preliminari in due mesi e 19 giorni, questo mentre la Thyssenkrupp pagava 13 milioni di euro ai familiari delle vittime e 4 milioni ad altre parti civili che si erano costituite nel processo. Poi ci fu il primo processo d' Appello, al termine del quale la formula dell' accusa non resse - e non pare strano - e fu derubricata a omicidio colposo «aggravato dalla colpa cosciente», sentenza tuttavia parzialmente annullata dalla Cassazione che, il 24 aprile 2014, confermò comunque la responsabilità degli imputati con pene che andavano ricalcolate.

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Poi, dunque e ancora, il processo d' Appello bis: si chiuse il 29 maggio 2015 e le pene furono sì ridotte, ma certo non di molto; il manager che in primo grado aveva preso 16 anni per omicidio volontario ne prese «solo» 10 (perché il dolo non vi fu) mentre altri manager presero da 7 a 9 anni; uno di loro vide la sua pena ridursi di due mesi (su dieci anni) e lievi riduzioni riguardarono gli altri: sette anni per i manager Gerald Priegnitz e Marco Pucci, nove anni per il dirigente Daniele Moroni, otto e mezzo per il direttore dello stabilimento torinese Raffaele Salerno, otto anni per il responsabile sicurezza Cosimo Cafueri.

 

Nell' insieme - attenzione - stiamo parlando della sentenza più dura mai emessa in Italia per infortuni legati al lavoro. E quale fu il risultato? Fu che la gente, alla lettura della sentenza, gridò ovviamente «vergogna» e questo con motivazioni che in ogni processo di rinomanza mediatica, ormai, si somigliano tutte: «la pena è troppo bassa», «vogliamo la verità», «hanno coperto i mandanti» e «questa è la giustizia italiana, che schifo».

 

Sono frasi testuali raccolte dopo la sentenza d' appello, sono grida disperate di chi ha sofferto e ancora soffre, come succede in tutti i processi per morte di qualcuno: ma è un qualcosa che non può essere, ogni volta, una giustificazione a tutto.

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Nei tanto evocati paesi civili queste scene non esistono o vengono punite, oppure, male che vada, accadono fuori dal tribunale. Da noi si occupano le aule, si insultano i giudici e gli avvocati, e i giornalisti possono limitarsi a porgere il microfono e a fomentare chi la spara più grossa, anzi, mediatica.

 

Siamo arrabbiatissime, sfinite, addolorate», lamentavano ieri alcuni parenti delle vittime, ormai abituati ai microfoni; «non possono stremare delle madri e delle sorelle... stanno studiando tutti i cavilli per abbassare le pene» aggiungeva un' altra commentatrice rivolta alle telecamere. Poi, in serata, la «vittoria»: come se due anni in più o in meno facessero la differenza, anzi, facessero giustizia.