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Filippo Fiorini per “la Stampa”
MESSICO - GLI STUDENTI UCCISI DAI NARCOS
Una borsa della spazzatura piena di cenere fino a metà. Trovata in riva a un fiume di montagna, aperta con i guanti, divisa in provette, buste asettiche, scatoline e poi spedita all’Università di Innsbruck, dove i più grandi esperti del mondo diranno se contiene veramente resti umani e, nel caso, con quale Dna.
Questa è la fine che avrebbero fatto i 43 studenti messicani scomparsi la sera del 26 settembre scorso durante una manifestazione contro le pratiche discriminatorie della loro università nell’assunzione di nuovi docenti. Una denuncia che rischiava di ostacolare la carriera politica del sindaco e della moglie di Iguala. Secondo tre nuove confessioni, sarebbero stati catturati dalla polizia e dati in mano a una banda di narcotrafficanti, che li avrebbe uccisi, bruciati e sparsi al vento, per conto del sindaco corrotto che erano andati a contestare.
«Ecco, mettevamo una fila così, poi la successiva sopra, nell’altro verso». Jonathan Osorio disegna una griglia sulla polvere, con un rametto che ha trovato in giro. Circondato dai detective, sta mostrando il modo in cui in quello stesso posto alla periferia della località di Iguala (300 chilometri da Città del Messico), lui e altri dieci scagnozzi della cosca dei «Guerreros Unidos» avrebbero disposto i cadaveri dei liceali della Normale di Ayotzinapa su una pira di sassi, copertoni, benzina, bottiglie di plastica e legna.
Secondo l’Agencia de Investigación Criminal, che ha diffuso il filmato, questa è la prima delle tre testimonianze che hanno portato a una svolta nell’inchiesta su uno dei fatti più tragici e gravi della storia messicana. «I tre detenuti hanno confessato di aver ucciso le persone che gli consegnarono i poliziotti di Iguala, in un posto sulla strada per Cocula detto il Poggio del Coyote», ha affermato venerdì sera il procuratore José Murillo. Da qui, i delinquenti identificati con soprannomi come «Bimbo», «Testone» o «Biondino» e comandati del capo Sidronio Casarrubias, avrebbero trasportato i corpi in due pick-up fino a una discarica defilata.
Almeno 15 dei ragazzi catturati qualche ora prima, però, sarebbero arrivati morti a destinazione. «Soffocati», risponde il teste quando gli si chiede perché. «A testa bassa», precisa invece quando lo si invita a mostrare il modo in cui gli altri si sono incamminati verso il plotone d’esecuzione. Dopo il rogo, le ceneri sarebbero state raccolte «in otto borse dell’immondizia di tipo grande», poi svuotate nel torrente San Juan. Tutte, meno due, che uno dei tre pentiti ha ammesso di aver scaraventato intere nella corrente, perché aveva fretta.
Mentre le autorità mettono le mani avanti in merito all’esito di un test genetico che ha dubbie possibilità di riuscita, dato il deterioramento dei campioni, si moltiplicano gli aspetti sfocati del racconto. La procura afferma che i tre hanno confessato l’omicidio, ma nei video li si vede riconoscere soltanto l’occultamento dei cadaveri. Due di loro dicono poi di aver lasciato bruciare la pira per sette ore e di essere tornati alle due del pomeriggio di sabato 27 settembre, quando iniziava a spegnersi.
Ma così, ammettono un buco di 7 ore dal momento in cui gli studenti sono stati presi, per ordine del sindaco José Luis Abarca, che voleva fargliela pagare per aver protestato contro la moglie Maria, candidata a succedergli alla guida del municipio prima che fossero entrambi arrestati, e sorella di uno dei capibanda dei «Guerreros Unidos».
Inoltre, a inizio ottobre un’altra soffiata proveniente da due delle 74 persone ora in carcere per la strage, aveva portato a una discarica in cui sono stati trovati molti corpi che, sebbene siano stati attribuiti sempre alla mano della polizia di Iguala, non erano però quelli dei liceali scomparsi.
Per questo, i loro genitori e compagni, che hanno già seppellito i tre ragazzi uccisi la notte dei fatti, non si rassegnano alla notizia della loro morte, chiedono prove più solide e chiamano tutti i messicani a scendere in piazza e pretendere le dimissioni del presidente Enrique Peña Nieto.
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