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Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
«‘N a scarpa e un socòlo»: solo questa folgorante immagine veneta può riassumere l’impatto del nuovo «ingresso» di Venezia, lo spropositato catafalco bianco che raddoppia e stupra l’Hotel Santa Chiara sul Canal Grande. Una scarpa e uno zoccolo: di là l’antico, piccolo e gentile albergo serenissimo, di qua il cazzotto cementizio bollato subito come «un motel di Segrate». Con tutto il rispetto per i motel e per Segrate.
«Vi piace?», ha chiesto ai suoi lettori il Corriere del Veneto . Risposta: 12,3% sì, 87,7% no. Vittorio Sgarbi si spinge più in là: «È una vergogna. Dovrebbe essere abbattuto e la soprintendente che ha dato l’ok essere dimissionata all’istante. Era il mio albergo, una volta. Non ci andrò mai più. Mai più. E spero che non ci vada mai più nessuno. Che quelle stanze in più restino vuote».
Salvatores Settis, che pure non è tra gli amici del critico, è totalmente d’accordo: «È una schifezza che offende Venezia, offende i veneziani, offende tutti coloro che nel mondo amano la città. Non hanno neppure cercato di render meno invasiva questa intrusione. Vergogna, vergogna, vergogna!».
Lo stesso proprietario del manufatto Elio Dazzo, che per anni ha cocciutamente dato battaglia in tribunale per poter costruire l’obbrobrio, fatica a dirsi entusiasta: «Mi sembra un’opera semplice, pulita, che non disturba. In piazzale Roma, tra la pensilina del tram e la cittadella non mi pare un pesce fuor d’acqua...».
Il contrasto col retro dell’edificio, la poltiglia di piazzale Roma coi grandi parcheggi auto, le rotatorie per gli autobus, gli autonoleggi, le baracche dei venditori di maschere e gondolette o la immensa bara bruna della nuova Cittadella di giustizia, effettivamente è ridotto. Piazzale Roma potrebbe essere un brutto slargo cittadino del Texas o di Tijuana ed è vero: il nuovo parallelepipedo con la scritta colorata «Vacancy», lì, non sfigurerebbe affatto.
Il guaio è che il confronto va fatto con ciò che il nuovo motel Santa Chiara ha davanti. Il Canal Grande. La via d’acqua più bella, più amata, più narrata, più sognata, più dipinta e più fotografata del pianeta. E lì il pugno nell’occhio del primo manufatto in cemento e acciaio (il cristallo e le formelle di vetro sono state tolte a quanto pare su consiglio della Soprintendenza), è davvero traumatico.
E certo non bastano le linee avveniristiche del ponte di Calatrava, lì accanto, a dare un senso al grossolano e incombente scatolone bianco. Il colore del lutto, in tanti paesi. Prova provata di quanti danni possa fare la spocchia di architetti decisi a lasciare il loro marchio, la loro firma, la loro zampata in un delicato contesto d’arte e d’amore che altre mani hanno disegnato nei secoli.
«Di certo non può essere più brutto di quello di prima», ha ironizzato sullo stesso Corriere del Veneto Massimo Cacciari, che sostiene d’aver messo dei bastoni tra le ruote ai primissimi progetti. Lui stesso, però, torna in queste ore sotto accusa. Stefano Boato, storico leader ambientalista, rinfaccia a lui e al Comune d’aver tenuto «una posizione ambigua fiancheggiando di fatto le pretese del padrone dell’hotel per spalancare la porta, col ponte di Calatrava e il raddoppio di Santa Chiara, al peggiore sfruttamento di Venezia. Sono stato l’unico in Comitato di salvaguardia, dove sedeva anche l’architetto Antonio Gatto, l’autore del progetto che quel giorno fece il gesto di uscire dalla stanza, a votare contro».
Sia chiaro: come forse i lettori ricordano, il mostruoso raddoppio dell’hotel sul Canal Grande è figlio d’un patto scellerato vecchio e stravecchio. Firmato negli anni 50 dagli amministratori di allora (frontalmente attaccati da Indro Montanelli per progetti scriteriati come la superstrada trans-lagunare su piloni alti 30 metri) e la proprietà del Santa Chiara che possedeva degli appezzamenti in quello che sarebbe diventato piazzale Roma. Un po’ di terra in cambio della licenza a costruire. Un errore gravissimo. Che avrebbe avuto ripercussioni decennali.
Finché certi giudici, ritenendo che l’interesse pubblico (la vista sul Canal Grande, patrimonio dell’umanità) non potesse prevalere sugli affari di un privato e sulle vecchie scartoffie notarili, decisero di imporre al Comune non un risarcimento, come buon senso consigliava, ma il rispetto integrale del patto scellerato. E dunque obbligarono il municipio a concedere all’hotel l’agognato raddoppio. Né fu consentito al Comune di mettere dei paletti. Come ad esempio l’obbligo di rispettare alcuni criteri. Macché.
Eppure, accusa l’ex assessore all’urbanistica Gianfranco Vecchiato, «il Comune non può dire di non aver potuto mettersi di traverso. Ci fu una certa ambiguità. Basti dire che la fase finale del tormentone non fu gestita, come doveva, dall’urbanistica ma dall’assessorato alle attività produttive. Visto il progetto sul Gazzettino , in giunta alzai la mano e dissi: “Massimo, ma è orrendo!”. Cacciari mi fulminò: “Non sei tu che devi dire se è bello o brutto, c’è la Soprintendenza”. Lei sì, la soprintendente, poteva mettersi di traverso. Poteva mettere il veto e fine. Ma non lo fece».
Dice tutto un’intervista del proprietario Elio Dazzo al Gazzettino dopo il nulla osta di Renata Codello, l’unica che avrebbe potuto dire no: «Voglio ringraziare la Soprintendenza per l’assistenza che ci ha dato nella revisione del progetto. La soluzione che abbiamo trovato ha una sua valenza ed è abbastanza piacevole...». Piacevole? Un immenso scatolone di cemento sul Canal Grande?
«Chi è lei per dare giudizi? È forse un architetto? Non faccia l’architetto!», risponderà piccata la soprintendente, poi promossa da Dario Franceschini a Roma, al cronista che gli chiedeva conto di certi rendering allarmanti e della bruttezza del manufatto in costruzione prima che fosse pudicamente ricoperto dai teli. E aggiungerà: «Son solo figurine. Aspettate a vedere i lavori finiti».
Ecco, adesso li abbiamo visti. I lavori finiti. E non c’è veneziano, non c’è veneto, non c’è italiano che non possa vedere cosa è stato fatto, con il consenso dei Beni Culturali, di quella che fu la porta di Venezia.
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