RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Filippo Facci per “Libero quotidiano”
Trent' anni fa, il 12 marzo 1992, Cosa Nostra ammazzò l'europarlamentare andreottiano Salvo Lima. La ricorrenza è importante perché fu il primo conto presentato dalla mafia dopo il maxiprocesso di Palermo che aveva decapitato Cosa Nostra, ma anche perché fu il primo indizio che la cosiddetta Mani pulite o Tangentopoli avrebbe potuto scoppiare al Sud ma fu fermata con proiettili e bombe.
Oppure, più ingenerale, fu un primo segno che i piccoli o grandi collanti che avevano tenuto insieme il Paese stavano cedendo: quello tra il popolo e i propri rappresentanti, tra le politica e l'imprenditoria, e, più in piccolo, tra partiti e Cosa Nostra. 15 marzo 1991. Un già isolato Giovanni Falcone pronunciò una frase emblematica durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di «connubio, ibrido intreccio tra mafia e imprenditoria e politica» e disse che «la mafia è entrata in borsa».
Fu questo, come affermerà il «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». 1° luglio 1991. Fu il punto più alto prima della caduta più rovinosa: la nomina di Giulio Andreotti a senatore a vita in due festeggiamenti organizzati nella stupenda Villa Attolico di Porta Latina e poi a Palazzo Farnese. Bisogna immaginare una sfilata di banchieri come Cesare Geronzi e Giampiero Cantoni, boiardi di Stato come Biagio Agnes e Franco Nobili, direttori e giornalisti come Bruno Vespa e Sandro Curzi ed Enzo Biagi e naturalmente l'onnipresente Gianni Letta, più molte centinaia di personalità e mogli ingioiellate: su tutti, un Andreotti 73enne attavolato affianco a Rita Levi Montalcini.
C'era anche il giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, già nota, come scriverà la procura di Palermo due anni dopo, per il «susseguirsi di una straordinaria messe di annullamenti di condanne di esponenti mafiosi». Andreotti, in quel periodo, poteva vantare anche il merito di aver legiferato contro la mafia come nessun altro: era stato ufficialmente lui, capo del governo, ad affrettare ogni procedura affinché fosse varato per tempo il famigerato decreto n.317 che dalla sera alla mattina raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per i boss. I governi di Andreotti, dal settembre 1989, avevano convertito in legge la bellezza di quindici decreti contro la criminalità organizzata, e a questo si affiancava al miracoloso Maxiprocesso che aveva già stangato Cosa Nostra anche in Appello: 1576 anni di galera per decine di boss e centinaia di affiliati. Questo un po' lo preoccupava. Al giudizio definitivo mancava solo la Cassazione.
Andreotti da un lato poteva continuare a ergersi come severo legislatore antimafioso, dall'altra c'era il problema che a credere al neo Andreotti nemico della mafia potesse essere anche la mafia. Vari collaboratori di giustizia diranno che i boss facevano affidamento sull'onorevole Lima e proprio sull'onorevole Andreotti affinchè mettessero ogni cosa a posto, anche grazie al dottor Carnevale. Tutte cose, pure queste, che Andreotti non poteva sapere, ma solo temere. Una sola cosa forse non poteva neppure immaginare: che Giovanni Falcone potesse d'un tratto trasferirsi a Roma, a lavorare per il ministero della giustizia come capo degli Affari penali, proprio nello stesso governo presieduto da lui, Andreotti.
Troppi pensieri per un uomo solennizzato sulla terrazza di Villa Attolico o tra i fregi di Villa Borghese. 30 gennaio 1992. La Cassazione confermò tutte le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla cupola: ergastoli come se piovesse. Per dirla semplice, Cosa Nostra non aveva mai visto nessuno dei suoi adepti e dei suoi vertici condannati con «fine pena mai». Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. 12 marzo 1992. L'europarlamentare siciliano Salvo Lima lasciò la sua villa di Mondello verso le 9.20.
A guidare l'Opel Vectra era il docente universitario Alfredo Li Vecchi, che affianco aveva l'assessore provinciale Nando Liggio. Furono avvicinati da un'Honda rossa con a bordo due uomini che spararono qualche colpo e colpirono il parabrezza e il finestrino laterale e una ruota. La vettura si bloccò. L'obiettivo era Salvo Lima, solo lui: «Tornano, Madonna santa, tornano» furono le ultime parole di Lima prima che la moto facesse inversione di marcia e puntasse ancora sull'auto. Scapparono fuori tutti, anche se il loden che Lima aveva appoggiato sulle spalle s' impigliò nella portiera. Corse via per una ventina di metri, verso il mare, si appoggiò a un albero, riprese a correre per un'altra decina di metri, poi si ritrovò bloccato davanti a una cancellata. Si girò: la moto l'aveva seguito. Fu freddato malamente con tre colpi, di cui l'ultimo alla testa. Gli altri due testimoni rimasero nascosti dietro dei cassonetti dell'immondizia. Furono risparmiati.
La moto verrà ritrovata a tre chilometri da lì. Testimoni, parenti e figli erano rimasti illesi anche negli attentati mortali contro il segretario democristiano Michele Reina e contro il presidente regionale Piersanti Mattarella, fratello di Sergio, futuro Capo dello Stato. Uno stile, una firma: quella di Totò Riina e dei corleonesi. I due killer - si appurerà - si chiamavano Giovanbattista Ferrante e Francesco Onorato. 15 luglio 1998. La sentenza del processo per l'omicidio di Salvo Lima, nel 1998, stabilirà che quest' ultimo si era attivato per cambiare la sentenza del maxiprocesso in Cassazione ma senza ottenere risultati. Lima sarebbe stato ucciso anche per questo. Tommaso Buscetta dichiarerà che il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera e impegnata a sostenere elettoralmente Salvo Lima.
claudio martelli giovanni falcone
Dirà Claudio Martelli, ai tempi ministro della Giustizia: «Dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato, o perché non capiva, o forse perché aveva capito... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima». Gli esiti processuali, come detto, stabiliranno che Lima fu ucciso perché non era riuscito a fermare il Maxiprocesso alla mafia. Ma esiste un'altra versione che prende sempre più corpo col passare degli anni, e, se non sostituisce la precedente, quantomeno visi sovrappone: è la pista del celebre dossier «mafia-appalti» come causa di tutta la successiva stagione stragista.
Una delle testimonianze più autorevoli è del sostanziale responsabile del dossier, il generale Mario Mori, ex comandante e fondatore dei Ros dei Carabinieri: nel dossier si parlava in particolare di Angelo Siino, «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» che in passato era stato assessore a San Giuseppe Jato nella corrente di Salvo Lima. Ha scritto Mori: «Per la prima volta, con il sostegno di Falcone... Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi... Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991, chiese l'informativa riassuntiva sull'indagine «Mafia-appalti»...
Appena ricevuta l'informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco... non se ne seppe più nulla». Il dossier «Mafia-appalti» lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e fu «illecitamente divulgato», passando nelle mani di Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino nella sede della Dc palermitana di via Emerico Amari. L'omicidio di Lima - e non solo il suo - partì da lì. Questo pensavano Falcone e Borsellino. 5 ottobre 2021. La sentenza del processo cosiddetto «Borsellino quater» scrive che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso «per vendetta e cautela preventiva» (vendetta per il maxiprocesso, cautela per le indagini su «mafia-appalti») come riferito anche dal collaboratore Antonino Giuffrè a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici.
Del resto un'altra autorevole conferma l'aveva data anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l'attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo, quanto conservativo per frenare le spinte che venivano da Tangentopoli contro una politica che era in crisi... Per noi è lacerante intuire ma non poter ancora dimostrare che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci, e cioè con l'omicidio Lima. È lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà. Infatti è successo.
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