DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Walter Veltroni per www.corriere.it
«Il grande silenzio durò fino all’undici aprile del 1961, quando iniziò a Gerusalemme il processo contro Adolf Eichmann. Prima la gente non raccontava niente. Ognuno teneva per sé i propri ricordi e il proprio dolore. Solo dopo il processo la gente fu disposta ad ascoltarci».
Dice così, nel documentario di Francesca Molteni Il processo Eichmann, uno dei sopravvissuti, Joseph Kleinmann, che entrò nel campo di sterminio di Auschwitz a quattordici anni, l’età di Sami Modiano e di Piero Terracina.
Il processo di Norimberga aveva collocato la Shoah all’interno di un giudizio sui crimini complessivi del nazismo. Quello di sessant’anni fa ad Adolf Eichmann accese invece i riflettori del mondo sulla persecuzione degli ebrei e sul disegno del loro annientamento. Una tragedia che, mai va dimenticato, non ha paragoni nella storia dell’umanità.
Il funzionario del Reich fu sequestrato nel maggio del 1960 dal Mossad in Argentina, dove si era rifugiato. Era uno dei tanti capi nazisti sfuggiti a ogni forma di giustizia, nascosti, sotto identità false, in vari Paesi dell’America del Sud.
Il premier israeliano annunciò al Parlamento di Israele che Eichmann «era stato trovato dai servizi di sicurezza israeliani». Quell’arresto scatenò polemiche, singolarmente anche negli Usa, come ben raccontato dal volume di Deborah Lipstadt Il processo Eichmann (Einaudi).
adolf eichmann a processo in israele
Il nome che il tenente colonnello si era scelto per la sua seconda vita era Ricardo, Ricardo Klement. Lo stesso che diede a uno dei suoi figli, l’unico che poi maturerà un giudizio critico nei confronti del nazismo, «se tornasse la dittatura, farei le piccole valigie dei miei figli e fuggirei».
Ricardo Eichmann, nel giugno del 1995, decise di incontrare l’uomo dei servizi israeliani che aveva prelevato in Argentina il nazista, suo padre. Sulle colonne del «Corriere della Sera» Lorenzo Cremonesi descrisse questo dialogo tra un quarantenne professore di Archeologia presso l’Università di Tubinga e Zvi Aharoni, che aveva passato giorni e giorni a sorvegliare la casa di Eichmann, in via Garibaldi, Buenos Aires.
Cremonesi fa parlare il vecchio Aharoni: «Questo momento mi è molto difficile. Io sono responsabile della morte di tuo padre. È per colpa mia che diventasti orfano a sei anni».
Ma chi era Eichmann? Era solo un contabile dello sterminio? Era un soldato costretto a obbedire perché incapace di reagire e privo del coraggio morale di dire no? Vale qui quello che, dopo l’arresto, scrisse su queste colonne Indro Montanelli: «Egli non uccideva perché portava una divisa. Portava una divisa per uccidere. E aveva volontariamente scelto quella della milizia più infame, adibita dal regime ai servizi più sporchi, appunto per soddisfare una vocazione di tortura e di morte».
E Montanelli invocava che, quale che fosse la pena, Eichmann fosse condotto a vedere Israele, «da Tiberiade a Eliat. Egli non deve chiudere gli occhi prima di averli tenuti bene aperti su ciò che gli ebrei, questa razza da lui ritenuta inferiore e maledetta, hanno fatto in quell’angolo di sabbioso deserto».
Centoundici deportati, scampati allo sterminio, per effetto di quel processo si sedettero sul banco dei testimoni. Alcuni piansero, altri restarono in piedi per l’agitazione.
I deportati sopravvissuti ai quali molti non credevano, costretti al senso di colpa per avercela fatta, esposti alle angherie dei negazionisti o alle critiche ingenerose dei giovani israeliani che si chiedevano perché non si fossero ribellati nei campi, finalmente presero la parola e il mondo si dovette fermare ad ascoltarli.
Molte testimonianze sono raccolte nel bel volume Eichmanndi Giulia Baj e Tullio Scovazzi, in libreria dall’8 aprile per Solferino. È stata, per Israele e per il mondo da poco libero, una esperienza collettiva sconvolgente.
Qualcuno di loro, in quei giorni, raccontò dei suicidi nei campi, che erano molto criticati da chi restava, perché ogni caduto finiva col lasciare un posto che sarebbe stato occupato da un altro ebreo.
Altri descrissero la spietatezza di una SS che, vedendo un neonato che piangeva in braccio alla madre, se lo fece passare con un sorriso rassicurante e poi lo sbatté a terra uccidendolo.
C’è chi aggiunse «ogni volta che noi soffrivamo, loro gioivano» e chi, guardando Eichmann, disse che era «un pezzo di marmo, un blocco di ghiaccio». Il procuratore Hausner, che condurrà l’accusa, dirà, all’inizio delle udienze: «Quando io sto di fronte a voi, giudici d’Israele, per dirigere l’accusa di Adolf Eichmann, non sto da solo. Con me ci sono sei milioni di accusatori. Ma questi non possono alzarsi in piedi e puntare il dito contro l’uomo sul banco degli imputati con il grido “J’accuse” sulle loro labbra. Perché essi ora sono soltanto cenere, cenere ammucchiata sulle colline di Auschwitz e sui campi di Treblinka e sparsa nelle foreste d’Europa».
E poi sosterrà che Eichmann era «un nuovo tipo di assassino, che sta dietro la scrivania. Un colletto bianco che concepisce un ordine di sterminio come un incarico da sbrigare. Fu lui a organizzare e pianificare il trasporto e la messa a morte».
Eichmann sembrava davvero un ragioniere, nelle sue deposizioni. Si appassiona alla contabilità, come faceva allora. Spiega che aveva deciso di aumentare la capienza dei treni che deportavano gli ebrei da 700 a 1.000 persone in ragione del fatto che le valigie dei destinati allo sterminio venivano messe su vagoni merci.
Non ha misura né senso dell’opportunità quando dice, a proposito della Conferenza di Wannsee del 1942 che decise la pianificazione dello sterminio: «Alla conclusione ho provato la soddisfazione di Pilato perché mi sono sentito completamente sollevato da ogni colpa… Ora a me spettava solo obbedire».
O racconta che al termine dei lavori ai quali aveva partecipato, nei quali si era parlato di «esecuzioni, eliminazioni, sterminio» si era sentito onorato — «era la prima volta in vita mia che partecipavo a una riunione coì importante» — che i gerarchi nazisti lo invitassero a bere «uno, due, tre cognac» per festeggiare l’adozione della decisione che così veniva descritta nel Protocollo redatto proprio da Eichmann: «Nel quadro della soluzione finale e sotto una guida adeguata, gli ebrei devono essere mandati a lavorare all’Est. In grandi colonne divise per sesso. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza sarà eliminata per cause naturali».
L’uomo che si pulisce freneticamente gli occhiali, che ha un tic dell’occhio destro, che si vanta con orgoglio della «meticolosità» del suo lavoro e dei suoi pregevoli risultati, che parla con freddezza delle «fontane di sangue», non lesina neanche affermazioni grottesche: «Era mio desiderio creare un luogo tutto loro, una terra dove gli ebrei potessero vivere».
C’era riuscito, si chiamava Birkenau. Ed era il luogo dove gli ebrei poterono solo morire. Quel processo, celebrato tra la missione di Gagarin e la Baia dei Porci, fu in verità il disvelamento storico della Shoah. Dimostrò che in una dittatura anche un uomo senza qualità, avvolto dalla «banalità del male», può sentirsi, come disse un ebreo di Berlino a proposito di Eichmann: «Il signore della vita e della morte».
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