La sentenza esclude soprattutto che i carabinieri possano aver fatto promesse di benefici ai mafiosi delle stragi. Scrivono i giudici (gli estensori della sentenza sono il presidente e il giudice a latere): "Eventuali concessioni a favore dei mafiosi, dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata dell’organizzazione mafiosa, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando di Cosa Nostra fosse rimasto Salvatore Riina e i capi corleonesi a lui più vicini e fedeli.
Una volta decapitata l’ala stragista, con la cattura di Riina e degli altri capi mafia fautori della linea dura di contrapposizione frontale allo Stato – prosegue la sentenza – sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente; e un’eventuale proposta di dialogo in tal senso non avrebbe potuto essere interpretata come un segno di debolezza dello Stato – che con la cattura dei capi corleonesi più pericolosi a cominciare ovviamente dal capo di Cosa Nostra avrebbe dato al contrario una grande dimostrazione di forza e della propria capacità di colpire al cuore l’organizzazione mafiosa – e quindi non avrebbe mai potuto corroborare la strategia stragista, rafforzando lo schieramento mafioso che la perseguiva".
La mancata perquisizione del covo di Riina
Le "sconcertanti omissioni" che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano "nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell'associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti". Scrive anche questo la corte d'assise d'appello nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
"In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D'Amelio", dicono i giudici.
"Non v'è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall'altro la rinuncia a perquisire l'immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d'ogni traccia - prosegue la corte - Né Mori e i suoi potevano essere certi dell'esistenza all'interno dell'abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo".
La trattativa con Dell'Utri, assolto
Su un altro imputato eccellente di questo processo, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo) la corte scrive invece: "Non si ha prova, in altri termini nonostante le sue ramificate implicazioni nell'antefatto" che "abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano". In primo grado Dell'Utri era stato condannato a dodici anni, in appello i giudici lo hanno assolto dall'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.
"Muovendo dalla posizione di Marcello Dell'Utri – scrive ancora la corte – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del consiglio dei ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato – prosegue la Corte di assise di appello – come l'ultimo miglio percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”. Per questa ipotesi di reati sono stati condannati solo Brusca e Bagarella.
Argomentano i giudici: "Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è altrettanto evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca... E' indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell'Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perche Dell'Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo, in specie fino a Belusconi quale Presidente del Consiglio dei Ministri".
"Nei confronti di questi imputati", cioè Bagarella e Brusca "pertanto, è configurabile un delitto tentato poiché gli stessi hanno posto in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad esercitare la citata pressione mafiosa stragista in danno di quel governo, non riuscendo nel loro intento criminale per una causa indipendente dalla loro volontà concretamente rappresentata, su un piano strettamente processuale, dalla mancanza di una prova certa riferita 'all'ultimo passaggio' della condotta affidata a Marcello Dell'Utri in previsione delle sue comunicazioni con il presidente Berlusconi".