
DAGOREPORT - DIRE CHE SERGIO MATTARELLA SIA IRRITATO, È UN EUFEMISMO. E QUESTA VOLTA NON È…
Marino Niola per “la Repubblica”
Dal dejeuner sur l’herbe di Éduard Monet allo spuntino sotto gli alberi del principe di Salina nel “Gattopardo”, il mangiare all’aperto sa sempre di trasgressione. Se non altro significa concedersi delle licenze.
Ne sanno qualcosa le ninfe inquietanti di “Picnic a Hanging Rock”, le collegiali vittoriane del meraviglioso film di Peter Weir, disposte a perdersi pur di assaporare il gusto della natura che sboccia prepotentemente in loro. In questi e in altri casi, colazioni, pranzi e cene en plein air, sono il simbolo di una liberazione da tradizioni pesanti e convenzioni soffocanti. Ma anche di una ricerca di nuovi spazi di socialità e di nuovi modi di vivere le città. Che da un po’ di tempo sono diventate dei dehors alimentari senza soluzione di continuità.
Caffè e ristoranti conquistano ogni giorno metri di strada, gli street bar spuntano nel deserto urbano come oasi esoneranti dove concedersi pause easy, attimi di extraterritorialità che ci liberano da routine noiose, incombenze onerose e responsabilità gravose. E il lounge smette di essere un semplice luogo, salotto o soggiorno che sia, per diventare un modo di essere e di sentire.
Un verbo ausiliare del linguaggio globale. Una sorta di distensione del tempo che si allunga pigramente, proprio come allunghiamo le gambe quando ci stravacchiamo sul divano per goderci il nostro spritz. Questa voglia di uscire dal chiuso delle mura domestiche per lanciarsi alla conquista del cibo è il sintomo alimentare di una mutazione antropologica dell’homo edens. Che sciama sempre più volentieri tra feste e festival, sagre, fiere e camminate sulle acqua con la benedizione di Christo.
Sono riti collettivi per celebrare l’estate che, finalmente, ci fa uscire dall’inverno dei nostri sensi. E segna la nascita di convivialità inedite, di nuove liturgie che intercettano perfettamente lo spirito del tempo. Modulare, flessibile, informale. Ma anche desideroso di inventare occasioni e tradizioni fusion, fatte con pezzi di passato e scampoli di futuro.
Si ripete spesso che l’individualismo di massa ci fa implodere nel chiuso di noi stessi. Ma noi, mangiando sotto le stelle, ci ribelliamo a questo ripiegamento. E se la strada e la piazza diventano un ristorante diffuso, il nostro prato urbano, di fatto sono nuovi spazi collettivi che nascono.
Aree open source dove sperimentiamo connessioni in carne e ossa. Virtuali ma non immateriali. E ci interfacciamo con i nostri simili, facendo esperimenti di comunità possibile, cercando contatti ravvicinati di un certo tipo. Analogici e digitali. Sguardi che si incontrano, corpi che si sfiorano, mentre la mano sinistra regge un finger food e la destra whatsappa la foto dell’incontro. Cortocircuiti dionisiaci con scariche di adrena-linea.
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