LA GIUSTIZIA È LETALE PER TUTTI – SABATO, A CASALE, HANNO SEPPELLITO UN GEOMETRA DI 58 ANNI UCCISO DALL’AMIANTO – È LA VITTIMA NUMERO 50 DALL’INIZIO DELL’ANNO E NON SARÀ L’ULTIMA – OLTRE TREMILA MORTI ATTENDONO GIUSTIZIA

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Marco Imarisio per il “Corriere della Sera

 

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L’ultimo è stato seppellito sabato scorso. A salutare Luigino Bozzo nella chiesa di Roncaglia c’era la sua famiglia e qualche abitante della frazione più piccola di Casale Monferrato. Faceva il geometra, aveva 58 anni. Il mesotelioma ci ha messo appena tre mesi a farlo annegare nell’acqua dei suoi polmoni. Fuori pioveva forte. La bara è stata caricata in fretta sull’auto dell’impresa funebre. Dieci minuti dopo sul piazzale non c’era più nessuno. 

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Quest’anno è peggio dell’ultimo. Appena metà novembre e siamo già a cinquanta. Al procuratore generale e ai giudici della Cassazione forse non può e non deve interessare. Ma in queste terre belle e sfortunate si continua a morire, come se essere nati da queste parti, aver respirato quest’aria sia una condanna destinata prima o poi a diventare esecutiva. 

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La sentenza di ieri fissa invece un punto fermo in una storia che è un continuo e atroce divenire. Ci saranno tutti i crismi di legalità, che dubbio c’è, ma le facce della gente che ieri piangeva disperata sulle scale del Palazzaccio romano dovrebbero dire anch’esse qualcosa. Molte di quelle persone sono venute a Roma per la prima volta in vita loro, così come in questi anni si sono messe in coda all’alba sul corso Valentino per salire sul pullman che le avrebbe portate alle udienze del processo di Torino. Lo hanno fatto perché credevano nella possibilità di quel risarcimento morale che ci ostiniamo a chiamare giustizia dopo aver assistito impotenti alle sofferenze indicibili dei loro figli, delle loro madri e padri. 

STEPHAN SchmidheinySTEPHAN Schmidheiny


C’era Valeria, la figlia di «Pica» Busto, che lavorava in banca e correva sugli argini del Po, come poteva sapere che tutto quel bianco dell’acqua e della terra conteneva un veleno che lui inalava. Valeria aveva due anni quando papà se ne andò per sempre, alla vigilia del Natale ‘88. Sua moglie fece affiggere dei cartelli funebri che dicevano «l’inquinamento da amianto lo ha tolto all’affetto di chi lo amava», e quel necrologio fu uno schiaffo in faccia a una città che stentava a comprendere il motivo di quelle morti repentine, tutte uguali, tosse secca, dolore appena sotto le scapole, e poi l’inutile macelleria chirurgica, persone che tornavano a casa e sembravano spettri, e nessuna speranza, mai.

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A Casale Monferrato sono morte di amianto tremila persone, senza contare quelle non dichiarate, in ogni paese se ne contano almeno una decina. Più delle vittime del conflitto in Nord Irlanda. La «fabbrica» era arrivata in città nel 1906 portandosi dietro un brevetto innovativo che mischiava fibre di cemento a quelle di amianto, capace di resistere al tempo e al fuoco. Lo chiamarono Eternit perché era destinato a durare per sempre. Gli abitanti consideravano quello stabilimento di 94 mila metri quadrati come la Fiat di Casale Monferrato, entrarci significava dire addio alla malora, alla vita nei campi. 


Gli operai morivano, ma erano separati dal resto della città da quel recinto di cemento in fondo al quartiere del Ronzone. Era meglio non sapere, altrimenti magari la fabbrica chiude, allora erano in tanti a pensarla così. 


Nel 1969 accadde però che il vento fece un giro strano per molti mesi. In via Roma, il cuore di Casale, morirono sette «civili» in poco tempo. Morì il maestro che aveva insegnato le tabelline a intere generazioni e ieri in aula c’erano i suoi figli, uno di loro con la bombola d’ossigeno, perché non c’è scampo, ti viene a prendere, anche dopo tutto questo tempo. E insomma, si cominciò a capire che stava succedendo qualcosa di mostruoso. 

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La prescrizione decorrerà senza dubbio dal momento in cui Eternit chiuse, nel lontano 1976. Ma quelli che conoscono Casale Monferrato e le altre città colpite da questa morte bianca che non conosce prescrizione, sanno che l’effetto sarà devastante e allontanerà intere comunità fatte di gente perbene e senza fortuna dalla giustizia.

 

Nel 2000 la fabbrica del Ronzone fu tumulata nel cemento con un’operazione uguale a quella fatta con il reattore di Chernobyl. Gli operai si estinsero, o quasi. Ma i «civili», ormai la maggioranza nel pallottoliere dei caduti, hanno continuato a morire nell’indifferenza. 

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Poi arrivò Raffaele Guariniello che raccolse le denunce fatte dagli ostinati familiari delle vittime, e per un attimo durato il tempo di due sentenze sembrò davvero che lo Stato facesse la sua parte. Adesso anche questa pare illusione. Il magistrato torinese giura che non si fermerà. In fondo, dice, «è solo prevalsa a sorpresa una diversa interpretazione del concetto di disastro. Ora si ricomincia con l’accusa di omicidio doloso». Parole che sembrano frutto della sua preoccupazione per la differenza tra le cose della legge e l’enormità di questa vicenda. Le sentenze vanno rispettate. Ma la sensazione che chiude questa giornata è terribile. 

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Sappiamo che il procuratore generale non è tenuto a leggere le parole di un giornalista, ma ci piacerebbe che l’avesse fatto. Marco Giorcelli aveva 51 anni. Era il direttore del giornale locale. Aveva una moglie, una figlia, amava girare in bici per le nostre colline. Quando scoprì di essere condannato scrisse il suo ultimo editoriale, tenuto nel cassetto fino a dopo la morte. Non conosciamo modo migliore per chiudere questo articolo. «Provo pena per gli imputati, più che rabbia. Per come hanno negato il senso dell’umanità nel nome del profitto, del potere. Certo, noi di Casale Monferrato chiediamo giustizia. Per i nostri morti, per le nostre famiglie sconquassate come se sul nostro cielo si fosse combattuta, nel XX secolo, un’altra guerra. Lunghissima, estenuante. E senza possibilità di difenderci. Un crimine contro l’umanità». 

 

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