DAGOREPORT – VINCENZO DE LUCA NON FA AMMUINA: IL GOVERNATORE DELLA CAMPANIA VA AVANTI NELLA SUA…
Federico Rampini per “la Repubblica”
Il candidato repubblicano Donald Trump mostra le chiavi della città di Madison, in Mississippi, stato che si è aggiudicato. Ora Trump conduce la gara con 458 delegati contro i 359 di Ted Cruz. Il primo a lanciare l’allarme è stato Larry Summers: la strana coppia Donald Trump + Bernie Sanders può segnare la parola fine per un’intera epoca segnata da liberalizzazioni, apertura delle frontiere, prosperità condivisa.
La chiamavamo globalizzazione. Per chi non ricorda: Summers, oggi docente a Harvard, fu segretario al Tesoro nell’ultima Età dell’Oro per l’economia americana, gli anni di Bill Clinton alla Casa Bianca, del trattato Nafta che creò una vasta area di libero scambio con Canada e Messico, seguito da altri trattati simili e infine dall’ingresso della Cina nella World Trade Organization (Wto). Tutte cose che oggi vengono demolite, demonizzate, dai due candidati che hanno appena vinto le primarie repubblicana e democratica in uno Stato-chiave, il Michigan.
Trump e Sanders hanno espugnato uno degli Stati più industriali d’America (c’è Detroit, capitale dell’auto) con un messaggio simile. La classe operaia è stata tradita, i suoi salari ristagnano, i suoi posti di lavoro sono minacciati, l’insicurezza assedia un intero ceto sociale che qui è parte della “middle class”.
La colpa è della Cina, del Messico. E delle multinazionali che tradiscono l’America, chiudono qui e riaprono là, poi eludono pure le tasse. Queste frasi le hanno ripetute, identiche, Trump e Sanders, il demagogo di destra e il radicale di sinistra. Il Michigan li ha ascoltati, e votati. L’unica differenza tra i due, su questo terreno, è che Trump dà la colpa anche agli immigrati, Sanders no. Ma quando parlano di trattati di libero scambio, compreso il Ttip tuttora negoziato con l’Europa (e appoggiato dal governo Renzi), i due sono allineati: mai più.
chris christie con donald trump
L’allarme di Summers comincia a diffondersi. Eduardo Porter sul New York Times ricorda cosa accadde l’ultima volta che l’America si convertì al protezionismo: era il 1930, furono varati i dazi punitivi della legge Smoot-Hawley, il crollo degli scambi mondiali contribuì alla Grande Depressione ancor più del crac di Wall Street (1929). Le preoccupazioni dell’establishment affiorano in una lunga analisi del Wall Street Journal intitolata: «Trump può scatenare una guerra commerciale?».
bill clinton parla in new hampshire
Lo scenario di Trump alla Casa Bianca va considerato come realistico, devono attrezzarsi anche quelli che fino all’ultimo lo combatteranno (come i capi di Apple, Google, Facebook). Il capitalismo americano è stato anti-Trump, ma ora comincia a prendere le misure di quello che potrebbe essere il prossimo presidente degli Stati Uniti. «Che cosa farebbe appena insediato?», si chiede il Wall Street Journal. E risponde così: «Mentre la costruzione del Muro col Messico non è praticabile in tempi rapidi, un presidente Trump avrebbe il potere di provocare delle guerre commerciali.
In base alla Costituzione è il Congresso che legifera sul commercio estero, però dal Trade Act del 1974 i presidenti hanno potuto assumere poteri unilaterali in questo campo. Invocando l’interesse nazionale, i presidenti possono imporre restrizioni agli scambi con altri paesi. Dal terrorismo all’inquinamento, dalla sicurezza dei consumatori ai diritti dei lavoratori, un presidente Trump potrebbe trovare ogni sorta di pretesti per varare azioni unilaterali contro i nostri partner stranieri».
Per le grandi imprese, è Hillary Clinton a dare più garanzie contro un salto nel buio. Il suo cammino verso la nomination procede grazie agli Stati del Sud e agli afro-americani (ha stravinto nel Mississippi). Ma l’abbraccio dell’establishment può renderla ancora più sospetta per la base operaia delusa e arrabbiata.
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