SCAFISTA STRAGISTA - IL RACCONTO DEI SOPRAVVISSUTI: “IL CAPITANO ERA UBRIACO E DROGATO. SI È NASCOSTO TRA NOI MANDANDOCI A SBATTERE SUL MERCANTILE. SIAMO COLATI A PICCO IN 5 MINUTI MENTRE I NOSTRI COMPAGNI NELLA STIVA URLAVANO”

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Francesco Viviano e Alessandra Ziniti per “la Repubblica”

 

Quella notte, sul ponte più alto, Said guardava con gli occhi sgranati Mohammed il tunisino, al timone, con un bidone di vino incollato alle labbra e una canna di hashish in mano mentre la sagoma scura del mercantile che stava arrivando in loro soccorso era ormai troppo vicina. «Il capitano era ubriaco.

 

Noi avevamo qualche bottiglia d’acqua e lui s’era portato un bidoncino di vino e mentre pilotava la barca continuava a bere e fumare. Quando ha visto il mercantile che si avvicinava ha lasciato i comandi per confondersi in mezzo a noi per non essere identificato.

 

L’imbarcazione, senza più nessuno al timone, ha urtato contro la nave e a bordo si è scatenato il putiferio. Eravamo tutti terrorizzati, cercavamo di spostarci verso la parte più stabile della barca che nel frattempo si era inclinata. Siamo colati a picco in cinque minuti. Io mi sono salvato perché ero sul ponte in alto, ma non dimenticherò mai quelle urla disumane dei nostri fratelli chiusi nella stiva».

 

Ha le lacrime agli occhi questo ragazzino somalo di 16 anni mentre, nella comunità di Mascalucia “La Madonnina” alla quale è stato affidato insieme ad altri tre diciassettenni superstiti dello spaventoso naufragio di sabato scorso, punta l’indice contro Mohammed Alì Malek, 27 anni, il “comandante” tunisino individuato dagli investigatori dello Sco della polizia già a bordo della nave Gregoretti tra i sopravvissuti e fermato dai pm di Catania subito dopo lo sbarco insieme al suo aiutante, il siriano 25enne Mahmud Bikhit.

 

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Oggi, assistiti dall’avvocato Massimo Ferrante, saranno interrogati dai pm che li accusano di omicidio plurimo e traffico di esseri umani.

 

Said, assistito da psicologi e medici di Save the children e Croce Rossa, ricorda tutto con estrema lucidità. «In Libia, mentre ci facevano salire sul barcone ci prendevano a bastonate per farci sistemare in fretta. Quegli assassini dicevano di volere imbarcare 1200 persone. Ma non sono riusciti a caricarne più di 800 o 900. Non c’era più un centimetro libero, era un inferno, ci facevamo anche la pipì addosso in piedi, immobili, come statue di marmo».

 

I “fratelli” a cui è rivolto il pensiero di Said sono le centinaia di migranti chiusi a chiave nella stiva dagli scafisti e morti intrappolati ma anche a suo cugino, di 20 anni, di cui non ha più traccia. Erano partiti insieme un anno fa dalla Somalia per raggiungere altri familiari ad Oslo. «Quando sono partito dalla mia città ero felice, mia madre mi aveva dato i soldi necessari per raggiungere la Libia dicendomi che ne avrebbe raccolto altri per poi pagare il viaggio verso l’Europa.

 

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Nove mesi fa, quando sono arrivato a Tripoli, mi hanno arrestato rinchiudendomi in una prigione di una città che si chiama Jdabiya. Era un inferno, ci picchiavano e ci davano pochissimo da mangiare e da bere. Ho visto morire alcuni bambini che si ammalavano perché non mangiavano. Non so come ho fatto a sopravvivere».

 

Altri mille dollari arrivati dalla Somalia e Said è stato liberato e condotto in un capannone su una spiaggia in attesa della partenza. «Poco prima della mezzanotte del 16 aprile tre persone, tra cui il “capitano” ci hanno caricato su dei furgoni e portati sulla spiaggia. C’era un gommone che faceva avanti e indietro verso il barcone.

 

Avevamo solo un po’ d’acqua e un tozzo di pane, il “capitano” diceva che non c’era bisogno di altro perché saremmo arrivati presto». Poi, dopo due giorni di navigazione, la tragedia. «Non so nuotare, sono caduto in mare e mi sono aggrappato a qualcosa che galleggiava. Era buio, il mare era pieno di gente. Mi hanno tirato sul mercantile con una fune».

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Un racconto, quello che Said sarà chiamato a ripetere venerdì davanti al giudice nell’incidente probatorio disposto per cristallizzare le testimonianze dei superstiti contro gli scafisti, che conferma la ricostruzione effettuata dal procuratore Alfio Salvi anche se, sin dalle prime ore subito dopo l’incidente, il comandante del mercantile King Jacob ha sempre negato che la sua nave avesse urtato contro il peschereccio.

 

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Ma anche Javaria, un ragazzo del Mali di 22 anni che incontriamo insieme agli altri sopravvissuti nella palazzina 1041 del Cara di Mineo (ieri visitato dall’europarlamentare Michela Giuffrida), conferma questa versione. Anche Java, che nel naufragio ha perduto un fratello e un cugino, ha riconosciuto gli scafisti. «È stato il capitano a far capovolgere la barca, è un uomo cattivo, un assassino e beveva liquori continuamente. Ho rischiato di morire ma quel viaggio lo rifarei di nuovo perché nel mio paese morire di fame o di guerra non è tanto diverso».

 

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Nonostante le testimonianze dei 28 superstiti non siano state decisive per stabilire il numero delle vittime del naufragio, i magistrati ritengono che si oscilli comunque tra le 800 e le 900 persone. «Un numero di passeggeri del tutto sproporzionato alle dimensioni del peschereccio che era privo di ogni necessaria dotazione di sicurezza», scrivono nel provvedimento di fermo il procuratore Giovanni Salvi e il sostituto Rocco Liguori.

 

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Il peschereccio, probabilmente acquistato dai trafficanti in Egitto, è partito da un porto nei presso di Tripoli la sera di giovedì della scorsa settimana dopo laboriosissime operazioni di imbarco dei profughi, trasportati in un furgone a gruppi di trenta, dalla fattoria in cui erano rimasti reclusi per più di un mese. Prigionieri e, come sempre, sotto la minaccia delle armi e picchiati ad ogni movimento non autorizzato, anche solo per un bisogno fisiologico.

 

I magistrati sono convinti che anche questo viaggio sia stato organizzato da «un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività criminali in Libia e in Italia », come quello colpito proprio lunedì da un’operazione dello Sco coordinata dalla procura di Palermo.

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