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Elisabetta Andreis per milano.corriere.it
«Duro e severo con i nostri trentacinque sarti, pignolo come non ho mai conosciuto nessun altro, ma quando uno di loro aveva bisogno era il primo a correre per sostenerlo con una umanità e una responsabilità d’altri tempi». Il ricordo di Carlo Andreacchio, genero di Mario Caraceni, mancato mercoledì mattina a 95 anni per tumore, va al di là delle immagini pubbliche note.
Il famosissimo sarto milanese vestiva Calvin Klein, Gianfranco Ferré, Eugenio Montale, Ralph Lauren e ancora Mike Bongiorno («non ci ha mai chiesto un centesimo di sconto»), Marco Tronchetti Provera, la famiglia Moratti e tutti gli Agnelli (duecento abiti di Gianni sono andati in eredità a Lapo). È stato Cavaliere della Repubblica, membro della Camera Europea dell’Alta Sartoria, accademico dell’Accademia dei sartori, Cavaliere di San Maurizio e Lazzaro, con medaglie in tutte le epoche della sua vita. In ultimo, aveva smesso di voler vivere: «Voleva raggiungere la moglie Rachele, detta Lina, mancata quattro anni fa, cui soleva cantare ogni sera “La vie en rose” — racconta Andreacchio —. Mi diceva con autoironia: “Mia figlia continua a farmi fare esami medici, dicono che sono in forma ma allora di cosa posso morire?».
Il suo papà, Augusto, era un sarto a sua volta notissimo che lavorava a Parigi dal 1930, dunque Mario ha frequentato le scuole in Francia. Arrivò a Milano nel 1946 quando il padre aprì in via Fatebenefratelli 16 la prima sartoria che esiste ancora oggi. «Non cambieremo mai sede — dice il genero, che a sua volta lavora nella sartoria con il figlio, nipote di Mario —.
La nostra tradizione e le nostre radici di famiglia sono salde qui e vogliamo che continuino a crescere. Era il più grande desiderio di Mario e quello che non disattenderemo, l’abbiamo promesso anche a lui, tutti insieme, parenti figli e nipoti, in questi ultimi giorni». Ha combattuto per aprire scuole di sartoria gratuite per i giovani e «anche in questi anni ha contribuito come promotore e docente» e diceva sempre una frase: “La cosa più importante nel lavoro, anche di fronte alle inevitabili frustrazioni e sacrifici, non è la fama: è la serietà».
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