RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Giampaolo Visetti per “la Repubblica”
Da anni, come uno spettro, contava i giorni al buio. Sepolta viva in casa, come già nella tomba, assieme alla figlia di sette anni. Nessuno, nemmeno il postino, doveva vederla. Con nessuno, nemmeno con un vecchio compagno di scuola, poteva parlare. Non era l'inferno. Quello cominciava appena arrivava lui. Calci e pugni. Capelli strappati e testa rotta contro il muro. Bottiglie spaccate sul collo. Minacce: «Prima ti ammazzo e poi ti occulto. So che morirai per mano mia».
Ha resistito oltre dieci anni, paralizzata dal terrore. Un giorno però ha fatto una scoperta. La sua bambina dormiva con un coltello sotto il cuscino. «Ho paura che il papà - le ha detto - mi uccida assieme a te». Piccola, ma attenta. Sapeva che mancava poco: ancora tre giorni e lui, dopo sei anni, sarebbe uscito dal carcere. Libero lui, prigioniere e condannate loro. Per questo, per salvare almeno la figlia, Marina Genocchio, 37 anni di Milano, ha scoperto con stupore di avere il coraggio di chiedere aiuto.
Era il 15 marzo di un anno fa. Per la prima volta ha disubbidito. Ha distratto la suocera e le cognate ed è uscita di casa. È entrata nella procura dei minori del tribunale di Milano e con un passo ha superato l'invalicabile confine che, oggi anche nel profondo Nord, circoscrive il mondo di chi si innamora di un mafioso.
Non lo faceva da molto tempo: ha parlato. Per essere precisi ha fatto qualcosa di più. Ha spiegato come e perché, non solo in Sicilia e in Calabria, «la cultura intimidatoria e la violenza che regola le consorterie della 'ndrangheta distruggono i progetti e le aspettative dei congiunti, imponendo a livello personale il modello di vita fondato sull' associazione mafiosa». Non a Gela, a Milano.
Grazie a questo coraggio, per la prima volta, un processo per maltrattamenti in famiglia vede oggi, da parte della Procura lombarda, la richiesta dell'aggravante del «metodo mafioso». L'inferno in famiglia viene scatenato per non far perdere faccia e ruolo al capo del clan, o per non umiliarlo davanti ai compagni di cella. E il risultato è possibile grazie alla mobilitazione complice di madri, sorelle, cugini e parenti tutti.
«Si riducono mogli e figli a schiavi e a vittime sacrificali - sintetizza Alessandra Cerreti, ex magistrato della Dda di Reggio Calabria e pm a Milano - per affermare l'onore del clan e per moltiplicare il suo potere sul territorio. In questo senso donne e minori diventano, oggi anche al Nord, il motore segreto della mafia». Dopo le indagini della Direzione distrettuale antimafia milanese, l'associazione Libera si è costituita parte civile. Marina e la figlia, grazie al progetto "Liberi di scegliere" e al protocollo tra le istituzioni che lo sostengono, vivono ora protette in un luogo segreto.
Il gip Valerio Natale ieri è stato però costretto a rinviare l'udienza preliminare all'autunno. Emanuele Napolitano, 51 anni di Gela, condannato per mafia ed estorsione, marito di Marina, si è visto sospendere la patria potestà ma pretende di essere presente al processo.
«È detenuto per altri reati - dice l'avvocata Vincenza Rando - ma non rinuncia a fare paura di persona. Deve farlo, se non vuole essere cancellato dagli altri mafiosi». Nel 2009 Milano e l'Italia hanno subìto lo shock di Lea Garofalo, uccisa e bruciata dal marito ''ndranghetista: assassino per «restare qualcuno». Marina, oggi, ricorda Lea. Quando ha sposato Emanuele, non conosceva il suo segreto. Era vedovo. La prima moglie, incinta, è rimasta uccisa in Sicilia in un agguato che doveva eliminare lui. Usata come scudo, anche lei per il bene del clan. Appena maritata, anche Marina ha capito. Ma era già nata la bambina.
POLIZIA OPERAZIONE ANTI NDRANGHETA
«Dovevo tenere le tapparelle abbassate - ha raccontato ai giudici - e le tende del balcone chiuse. Per verificare che nessuno mi avesse visto e parlato, quando rincasava misurava le fessure tra le liste dei serramenti». Pestaggi quotidiani, davanti alla figlia, anche dopo i trasferimenti a Busto Arsizio, Pavia e Voghera. Dopo le condanne, Emanuele ha passato il compito alla madre Emanuela, 71 anni, alle sorelle Rosaria, 53, e Antonella, 38. Una missione precisa e cruciale: controllare ogni attimo di moglie e figlia, minacciare, riferire e spiegare che prima o poi «avrebbero dovuto pagare il conto».
La bambina si è tradita in due temi fatti a scuola. Nel primo, quando Emanuele era libero, ha scritto: «Odio Falcone perché senza di lui mio papà sarebbe libero». Nel secondo, una volta protetta, scrive: «La mafia è un masso che non mi fa respirare». In uno degli ultimi incontri il padre le ha detto: «Tua madre è una merda e te sei come lei. Come esco e sento poco così, vi faccio vedere come va».
Lui ha già trovato due volte il luogo in cui sono state nascoste. Stanno cercando di salvarle, come tante altre donne che scoprono l'esistenza «di un mondo altro» e di «un'alternativa alla mafia». Non condannarle a morte questa volta è un obbligo: sono rimaste vive anche per noi.
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