STUPRI E UMILIAZIONI: ECCO COME SI (NON) VIVEVA SEGREGATE DAL MANIACO DI CLEVELAND

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

Massimo Vincenzi per "La Repubblica"

Michelle Knight passeggia svelta lungo Lorain Avenue, è appena uscita dalla casa di suo cugino, poco lontano nel cuore di West Side, è una sera di agosto, ha 21 anni e di lei dicono che sia "una ragazza difficile, con qualche problema". Di sicuro è arrabbiata, i servizi sociali le hanno appena tolto il figlio.

Se la prende con la madre che non ha fatto abbastanza per aiutarla, che non la capisce. Cammina sola, un pick up rosso si ferma e le offre un passaggio. Senza pensarci, accetta. È il 2002, Michelle è la prima vittima a finire nella tana di Ariel Castro. Quella che subisce le torture più dure, se avesse un senso misurare la sofferenza.

È lei stessa a raccontarlo alla squadra speciale dell'Fbi che la interroga nella sua stanza al Metro Health Medical Center di Cleveland, l'unica ad esser ancora ricoverata. Agli agenti parla con voce ferma, solo qualche volta si interrompe. Senza piangere, dice il rapporto, solo guarda fisso nel vuoto.

Dice: «Sono stata violentata subito, appena arrivata nella casa. Poi ancora, ancora. Sono rimasta incinta cinque volte e lui mi ha fatto sempre abortire. Mi ha tolto l'acqua e il cibo per due settimane, poi se non bastava mi riempiva di pugni. Colpi forte sullo stomaco e sulla pancia sino a farmi perdere il bambino».

Quasi un anno dopo un'altra ragazza, Amanda, finisce nella trappola di Ariel Castro. Anche su di lei lo stesso "terribile calvario", come lo definisce il procuratore nell'udienza di ieri dove sono state formalizzate le accuse e decisa la cauzione: 8 milioni di dollari, 2 per ogni vittima. Ma, quando lei rimane incinta, nella testa dell'uomo scatta qualcosa di diverso. Non la affama, non la picchia, anzi ordina a Michelle di aiutarla. La minaccia di morte se dovesse accadere qualcosa al bambino.

Amanda partorisce in una piccola piscina di plastica, «per non sporcare troppo», come avrebbe detto Ariel secondo alcune fonti. La neonata, Joyclen, per un attimo smette di respirare: Michelle allora fa quello che ha visto fare alla televisione, avvicina le sue labbra a quelle della piccola e le pratica la respirazione bocca a bocca, salvandole la vita. È la notte di Natale del 2006.

Nella tana arriva infine anche Gina DeJesus. «Non so perché l'ho fatto, ne avevo già due in mio possesso e ho voluto anche questa: non riesco a fermarmi. Mi ucciderò e lascerò tutto a loro», scrive lui in una lettera trovata nella casa di Seymour Avenue (la polizia ora conferma il ritrovamento, ma non il contenuto).

Sulla sua perversione non ci sono dubbi, la ufficializza il procuratore che gli contesta: stupri, violenze fisiche e psicologiche, un comportamento depravato e premeditato. Per Castro chiederà la pena di morte. Le ragazze vivono ognuna isolata dall'altra, poi possono uscire dalle celle e stare al secondo piano. Qui imparano ad aiutarsi a vicenda. Possono guardare la tv, vedono le lacrime dei loro genitori, le indagini della polizia. Ma vedono anche che non succede niente.

Michelle però sente che per lei là fuori qualcosa è diverso. Per lei le ricerche finiscono presto. Per lei pochi volti rigati da lacrime e niente fiaccolate di amici. È la prima a cedere psicologicamente. Si arrende alla sua nuova condizione.

Tanto che quando lunedì Amanda trova aperta la porta di ferro, quella grande che le divide dal salone, e inizia la fuga, lei non si muove. Non è legata, ma non fa un passo. Così come Gina, la più piccola delle tre. E ora Michelle è l'unica a non aver ancora parlato con la madre. Le passano il telefono in ospedale, ma lei fa no con la testa. La madre Barbara, che ora vive in Florida, rilascia interviste da giorni: «Non è vero che l'avevo dimenticata. Quando i servizi sociali e la polizia ci hanno detto che se n'era andata di sua volontà, io non ci ho mai creduto. Ho continuato a mettere volantini nel quartiere. Io voglio solo che lei sappia che la amo. La aspetto».

Le altre due sono nelle loro case. La famiglia le protegge. Un cugino di Gina, che ha parlato con lei, poi racconta al New York Times: «Quell'uomo festeggiava il giorno del loro rapimento come fosse un compleanno. Come fosse il giorno della nuova nascita». E poi ancora: «Spesso metteva loro un collare come quello dei cani e si divertiva a farle camminare carponi sul pavimento».

Lui, il predatore, appare meno feroce mentre ascolta le parole del giudice. Sta in piedi, gli occhi bassi, piantati sul pavimento. I capelli sudati e la tuta blu del carcere slacciata. Poi, quando torna verso la cella, alza il giubbino a coprirsi la faccia. Nel cielo senza nuvole di Cleveland volano palloncini colorati. Sono per Michelle: «Non sei sola», dicono le ragazze che li hanno lanciati.

 

LA CASA DEL RAPIMENTO A CLEVELAND PEDRO CASTRO E IL NIPOTE IN UNA FOTO DI FAMIGLIA DEGLI ANNI NOVANTA IL SOSPETTO RAPITORE ARIEL CASTRO CON UNA EX FIDANZATA DAVANTI ALLA PORTA CHIUSA CHE CONDUCE AL SEMINTERRATO bb michelle knight horizontal gallery jpegmichelle-knightARIEL CASTRO Michelle Knight E CASTRO large AMANDA BERRY ap house michelle knight amanda berry ll wg LA CASA DEL RAPIMENTO A CLEVELAND ragazze rapite a clevelandMichelle Knight t AMANDA BERRY CON LA FIGLIA