DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, se non fosse che la mancanza di sonno fa di me un rudere certo che domattina più o meno alle tre metterei la sveglia pur di seguire in diretta la gara sui 1500 stile libero del nostro Greg Paltrinieri, entrato in finale con il quarto tempo. Di tutti gli atleti e atlete azzurri che si sono finora comportati valorosamente a Tokio, a mio avviso “Greg” è stato il più strepitoso. Nella batterie di qualificazione degli 800 metri stile libero era andato di merda, lui che si presentava con il titolo di campione del mondo.
Aveva nuotato male e disperatamente per non affondare, da quanto non gli riusciva nulla della sua nuotata felice e guizzante, Era entrato in finale per il rotto della cuffia, settimo di otto finalisti. Gli era perciò toccata la corsia la più lontana, una corsia nella quale lui non credo avesse nuotato mai in vita mia. Tale è stato il suo rango fin dagli esordi nel nuoto internazionale, che a lui toccava sempre la corsia 4 o la 5 cinque, le corsie dalle quali vedi bene dove sono e che stanno facendo i tuoi avversari.
Dalla corsia 8 non vedi niente o quasi. Ebbene da quella corsia si è tuffato ed è parto al modo di “un pazzo” come ha scritto Massimo Gramellini, uno che decenni fa aveva esordito da giornalista sportivo. Un pazzo che si era avventato a scapicollarsi per 16 vasche dopo che il giorno prima era arrivato al traguardo più morto che vivo. Per almeno 15 di quelle vasche “Greg” è rimasto primissimo e sebbene avesse alle costole due mostruosi avversari, un americano e un ucraino.
Negli ultimi 20 venti metri i due gli si avvicinano ancora, è una lotta a guadagnare o perdere dei centimetri, per un attimo “Greg” è terzo per poi arrivare secondo dietro il ventunenne americano Finke. Da brividi. Com’è sempre dello sport, la più bella e la più leale delle contese tra gli umani.
Da quando sono cominciate le Olimpiadi, prendo i giornali e non riesco a leggere null’altro se non ciò che attiene alle Olimpiadi (le pagine relative al destino di Roberto Calasso fanno eccezione). Non c’è scena teatrale o commedia umana che regga il paragone quanto a situazioni, personaggi, drammi, vittorie e sconfitte, insomma tutto il repertorio dello stare al mondo.
Sì o no, devi andare a prendere le opere complete di William Shakespeare per trovarci qualcosa che stia al paro con il dramma dell’americanina Simone Biles alta un metro e 51 tutti ferro e molle umane, la più grande ginnasta di tutti i tempi, che s’è ritratta da alcune finali perché la tensione dell’appuntamento olimpico le ha fatto perdere “il controllo del suo corpo”, quel corpo che fino a quel momento era stato perfetto nel farla volteggiare a tutti e quattro gli attrezzi del programma femminile.
E che dire della nostra Federica Pellegrini che da vent’anni e passa ogni giorno va su e giù lungo una piscina, sola, solissima, metro dopo metro in lotta con sé stessa, e lo ha fatto per cinque olimpiadi successive.
E poi c’è che in occasione delle Olimpiadi, in televisione vanno indietro a raccontarci personaggi e sfide del passato. A un certo punto mi ritrovo a guardare una terrificante sfida di una ventina d’anni fa tra un sollevatore di pesi turco e uno greco. Ciascuno dei due porta su fin oltre i 180 chili. Ogni volta è una sfida terrorizzante, il volto che si contrae fino allo spasimo, il collo che si tende nello sforzo inaudito, le gambe che devono tenere botta sotto quel peso sovrumano.
Il turco porta su 187 chili se non sbaglio, e a questo punto è primo. Il greco cerca di sopravanzarlo con un’alzata di 190 chili. Non ce la fa, è secondo. Si avvicina al rivale e gli mormora “Oggi sei stato il migliore”. E il vincitore della medaglia d’oro che gli risponde “No, oggi noi due siamo stati i migliori”. Ebbene, quanto a intensità teatrale che ne dite di paragonare questo duetto a quello che succede fra i grillini italiani, Conte e compagnia cantante? Provate la stessa emozione nei due casi e rispettivi protagonisti?
Tutta la mia vita è stata scandita dagli appuntamenti olimpionici. Nel 1964 avevo poco più di vent’anni e a casa nostra non potevamo permetterci un televisoore. Ho bussato alla porta della nostra vicina di casa e le ho chiesto se la sera poteva ospitarmi un attimo perché c’era la finale del corpo libero maschile di ginnastica, quella dov’era favoritissimo il ginnasta italiano Franco Menichelli, uno che oggi ha la mia età.
La signora mi accolse, mi sedetti in un cantuccio, aspettammo una mezz’oretta, finalmente Menichelli entrò in pedana. Fece tutto alla perfezione, ho detto alla perfezione. Medaglia d’oro al corpo libero. Tra parentesi tale è stato lo sviluppo della ginnastica agonistica che con l’esercizio del Menichelli 1964 oggi non vinceresti neppure una gara ragionale juniores.
E poi la finale olimpionica dei 200 metri a Mosca, la finale di Mennea. Vado a vederla in casa dal mio amico fraterno e rivale al tennis tavolo, il libraio catanese Carmelo Volpe (che oggi non c’è più). Giochiamo un po’ di partite in attesa della finale. Accendiamo il televisore. Gli otto finalisti sono ai blocchi. Partono. All’uscita della curva il telecronista annuncia con voce straziata che Pietro è ultimo. Dirittura finale.
Pietro risale, ne supera uno, due, tre, quattro. Ha ancora un inglese davanti, mancano pochissimi metri al traguardo. Lo supera un istante prima di squarciare col petto il filo del traguardo. Medaglia d’oro. Dio mio Pietro, Pietro, con quel suo volto da meridionale povero. Dio mio che emozione mentre ci sto pensando vent’anni dopo.
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