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VIDEO - I RAGAZZINI DI NAPOLI CHE GIOCANO A 'GOMORRA'
I bambini di Napoli giocano a 'Gomorra' sparandosi per strada
Carlotta Dotto per ‘Dagospia’
i bambini di napoli giocano a gomorra
In seguito alla diffusione su Dagospia di un video ‘rubato’ in un vicolo di Napoli che mostrava un gruppo di ragazzini imitare una scena criminosa di Gomorra, si è scatenato in rete un affaire virale. Nessuno si è mai sognato da queste parti di tracciare la (facile) equazione Gomorra uguale camorra. Ok?
Mi spiace purtroppo non poter vestire i panni della docile sabina che si presta al ratto. Non poter essere il pedante e molto ottuso moralista, perfetto per infilare le mani nell’acquasantiera del bon ton contemporaneo. Come direbbe Al Pacino, alias Lefty Ruggiero: “Stai pisciando sull’albero sbagliato, amica”.
i bambini di napoli giocano a gomorra
Mi riferisco a un articolo uscito su “Vice”, che si definisce ‘uno dei siti di costume più borderline del paese’, ma che, ahinoi, finisce per risultare uno strarecitato sermone sull’ovvia amoralità dell’arte, dove il magistero super partes e super snob sente il bisogno di farci sapere, che, udite udite, da sempre i bambini imitano quello che vedono in tv e che “…tranquilli, guardare Gomorra non vi renderà camorristi”.
La tentazione sarebbe di prestarmi a quella che diventerebbe in fondo un’elogiabile azione umanitaria. Essere, cioè, l’albero giusto. Lo capisco. Ognuno ha il proprio leitmotiv imperioso, e ha bisogno di valorizzarlo eleggendo di volta in volta l’interlocutore ad hoc. Come fai a rovesciare la filastrocca egoica, senza il nemico adeguato? A scappellarti davanti alle verità più ovvie? Che l’arte non sia fatta per insegnare o educare, lo sapeva anche Arcimboldo.
i bambini di napoli giocano a gomorra
Altra cosa è raccontare un’operazione estetica e i suoi effetti sullo spettatore serializzato di turno.
Possiamo andare avanti e dire, per esempio, che l’universo dei comportamenti umani è profondamente fondato sull’imitazione dell’altro. Lo sbadiglio chiama sbadiglio, la risata contagia, e così via. Ma con la proliferazione delle immagini, con la religione totemica dell’effimero e l’allucinante hypermercato di insignificanze, allitterazioni ripetute all’infinito, l’effetto mimetico, o si potrebbe dire memetico, perde la dimensione simbolica, diventa un’adesione acritica al potere fascinatorio dell’immagine. Niente di nuovo, chiaramente. ‘Uno strip-tease senza speranza della realtà’ scriveva Baudrillard negli anni ‘90.
Il carattere inedito del Gomorra televisivo, di quell’oversize realistico che secondo l’articolo di “Vice” sarebbe così indigeribile per un pubblico affamato di trasfigurazioni, è un’estetica orientata a mostrare in modo reiterato la violenza nella sua nuda e cruda “verità”. Lo sparo o il taglio alla gola, assoluti e apatici, insistono nella ripetizione e nel primo piano.
i bambini di napoli giocano a gomorra
Niente viene risparmiato allo spettatore. Nella tragedia greca, così come nel cinema epico di Hollywood, persino nel “mucchio selvaggio” di uno come Sam Peckinpah, violenza allo stato puro, la catarsi massima è nell’uso registico, artistico, della camera che sospende l’attimo prima dell’atto. L’apice dell’incandescenza non è mai nell’atto in sé, ma un secondo prima.
In Gomorra e simili non c’è nulla che purifichi, nulla che ti “salvi”, nulla che ti aiuti a risistemare simbolicamente la violenza nuda e cruda se non hai di base l’educazione e gli strumenti per farlo. L’”immediatezza” elogiata nell’articolo di “Vice”, la sua “presa diretta” è prima di ogni altra cosa marketing televisivo, caccia di fenomeni glamour traducibili in cifre d’ascolto.
Tutto qui. Niente di più, niente di meno. All’iper-realismo delle immagini si aggiunge la scelta di rappresentare un mondo dove la dominazione dell’eroe negativo è assoluta. Una volta il “buono” era contrapposto al “cattivo”, l’eroe positivo a quello negativo, ed era quasi sempre il “bene” a trionfare. Poi, le partite sul set si sono fatte sempre più complesse ed è diventato impossibile decifrare vinti e vincitori.
Nel caso di Gomorra, non solo sono scomparse la contrapposizione o la dialettica tra “Male” e “Bene”, ma i due estremi finiscono per viaggiare a braccetto. Quel poco di “bene” riemerge qua e là nello sguardo del “male”, il Ciro di turno, assassino patentato, che dopo aver massacrato torna a casa e abbraccia struggente la figlia, viene attraversato da sussulti di pentimento, produce sguardi appesi e nostalgici.
Questi affioramenti del bene che vengono regolarmente respinti al mittente, producono un alone ancora più eroico e moltiplicano le conseguenze mimetiche. L’esaltazione del male diventa ancora più incisiva e penetrante perché avviene all’interno di un mondo dominato dal ‘male’, ma nel quale c’è l’insorgenza puntualmente abortita, soffocata del ‘bene’.
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