Estratto dell’articolo di Elisabetta Rosaspina per milano.corriere.it
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Quando Roberto Germani racconta come trasportò la salma imbalsamata di Eva Peron da Milano (fin quasi) a Madrid sembra che stia parlando di un’avventura accaduta pochi giorni prima. Invece è passato più di mezzo secolo da quel 2 settembre 1971 quando l’allora giovane autista dell’impresa di pompe funebri San Siro partì, ignaro, con un carico abituale e una destinazione più interessante del solito: la Spagna di Francisco Franco.
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Andò un po’ diversamente. Ciò che nessuno sospettava, fino a quel giorno, era che per ben 14 anni il corpo della leggendaria Evita avesse riposato, è il caso di dirlo, sotto mentite spoglie, in un tombino trentennale del più grande cimitero di Milano, a Musocco, Campo 86, Giardino 41.
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Il vedovo, José Domingo Peron, era in esilio a Madrid dal 1960, dopo essere stato spodestato dalla presidenza dell’Argentina nel 1955. E, da quello stesso anno, il corpo venerato della «madonna dei descamisados» era scomparso dalla sede della Cgt, il più importante sindacato dei lavoratori del paese, proprio perché nella sua teca di cristallo la reliquia — «quella cosa», come la definivano i suoi nemici — era diventata troppo ingombrante per gli anti peronisti saliti al potere con un colpo di stato.
Dell’amatissima (e odiatissima) Evita, morta di tumore a 33 anni, il 26 luglio 1952, si era persa ogni traccia. I servizi segreti militari argentini l’avevano trasferita di nascondiglio in nascondiglio. Inchieste, leggende e romanzi hanno riferito o ipotizzato che fosse stata rinchiusa in armadi, in casse di attrezzature radiofoniche e in furgoni da fioristi, sotto il letto di qualche ufficiale e perfino dietro il sipario di un cinema. Si affermò che per depistare i suoi seguaci circolavano copie in cera ma pochissimi sapevano che, dopo aver pensato di incenerire o di affondare il cadavere nel Mar del Plata, il presidente argentino in carica Pedro Eugenio Aramburu e i suoi emissari avevano ottenuto dal Vaticano il via libera per una «cristiana sepoltura» il più lontano possibile, oltreoceano, in terra italiana.
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Evita dunque era arrivata in incognito a Genova nel maggio 1957 in una bara imbarcata sul bastimento Conte Biancamano. Da lì era stata trasferita a Musocco: unico presente all’inumazione, consapevole di essere al cospetto della patrona argentina degli umili, era un sacerdote, padre Giulio Madurini, che avrebbe mantenuto il segreto fino alla fine. Il primo settembre 1971, quando i necrofori gridarono al miracolo riesumando il corpo intatto di una bellissima sconosciuta, fu lui a rassicurarli: «In Argentina — disse loro — si usa imbalsamare i corpi».
Il giorno dopo Roberto Germani, affiancato dal sedicente fratello della defunta, Carlos Maggi, intraprese il servizio internazionale più incredibile della sua carriera: «Sono fiero di aver avuto un piccolo ruolo nella storia di quella donna straordinaria» dice ora, ottantenne, passeggiando tranquillo sotto il tiepido sole primaverile, al Parco di Trenno. Ma, quando ripensa alle 60 ore di viaggio con il quale si è conquistato quel posto memorabile, lascia trapelare ancora tutta la sua emozione: «Quel Carlos Maggi aveva una gran fretta di arrivare in Spagna».
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Quel Carlos Maggi, si sarebbe saputo molto tempo dopo, era un sottufficiale dei servizi, si chiamava in realtà Manuel Sorolla e temeva che, se la notizia del recupero del corpo di Eva Peron fosse trapelata, i temibili Montoneros, ala radicale del peronismo, avrebbero organizzato un agguato lungo la strada per impadronirsene. L’ordine era di restituire la salma al vedovo, in un gesto di distensione tra il regime indebolito e l’esule, ancora rimpianto in patria.
Dopo una sosta notturna a Perpignan, al confine tra la Francia e la Spagna, Germani trasecolò trovando oltre frontiera un picchetto d’onore in attesa del carro funebre: «Dissi: signor Maggi, lei è davvero un personaggio importante in Spagna. Lui mi rispose che era molto noto per il suo commercio di tabacco». Ma quando a loro si unì una scorta di auto scure che impose un’andatura decisamente sostenuta, il povero autista italiano cominciò ad allarmarsi.
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Nessuno li fermò, fino a poche decine di chilometri da Madrid dove, nonostante le sue proteste, Germani fu costretto a svoltare tra i campi di Guadalajara: «C’era uno schieramento di civili che si facevano il segno della croce e di militari sull’attenti». Il feretro fu scaricato dalla Citroën dell’impresa e ricaricato su un anonimo furgone blu. «Ero disperato, il mio compito era di consegnare la bara in un cimitero o in una chiesa». Nessuno, nemmeno il suo cordiale accompagnatore, gli diede spiegazioni: era libero però di tornarsene a Milano.
Juan Domingo Peron con la moglie Evita
«Non me lo feci ripetere due volte» ammette lui, che temeva a quel punto di aver portato una cassa piena di armi, documenti segreti, refurtiva o lingotti d’oro. Ignorava che poche ore dopo, invece, la notizia della riapparizione del cadavere di Evita avrebbe fatto il giro del mondo. E lo trovò infatti ad attenderlo alla frontiera francese, dove fu seccamente apostrofato dai gendarmi: «Signor Germani, ha trafugato lei il corpo di Eva Peron?». Negò con vigore.
«Ma, involontariamente, era stato proprio così» sorride adesso, a distanza di 50 anni. Quando Peron tornò (per poco) al potere, arrivò una telefonata da Buenos Aires: l’autista e il carro funebre che avevano avuto l’onore di trasportare la «Señora» erano cordialmente invitati per un giro trionfale in Argentina.
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«Nemmeno per idea» rimbalzò la proposta Germani. «E se ci fosse stato, mentre ero lì, un altro colpo di Stato? Finiva che mi sparavano pure addosso».
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