Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
sebino nela roma dundee
Diciamo che si fa notare. Un vero, vulnerabilissimo macho, che avanza deciso sula fascia, che sia una tavola amica o un nemico fetente, alla faccia dei tumori che ti attaccano e del tempo che precipita. E del freddo di febbraio che inclina al gelo (“Mi fa il solletico, noi siamo abituati alla tramontana di Genova”). Il cardigan grigio di lana sul torace nudo in bella mostra, sotto la giacca di lana. Devi fare un bell’atto di fede per credere alla sua malattia, per pensare a lui come a un uomo che viene da due anni e mezzo di chemio e chissà quante notti da incubo. I capelli, tutti. I celebri bicipiti femorali, intatti.
Uomini come Sebino Nela, con la scusa di essere Sebino Nela, vogliono solo una cosa, una più di ogni altra, passare un paio d’ore a tavola con qualcuno che li aiuti ad essere Sebino e a dimenticare Nela. Il personaggio, la star del calcio, come sta documentato nelle pagine di Wikipedia, dell’album Panini, nei poster in posa da Hulk e negli occhi adoranti dei tifosi. Sebino è uno strano impasto di uomo, gentile e selvaggio allo stesso tempo e nella stessa pelle.
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Si presta a fare foto (gli autografi non li vuole più nessuno) con chiunque. Sorride a tutti, ma il coltello a serramanico è lì, sempre pronto a scattare. Smanioso di fidarsi e l’istinto che lo spinge a diffidare. Quasi tre ore, il ratto del Sebino. Insieme a tavola. Uno di fronte all’altro. Lui è quello che è. Veste come vive. In conflitto permanente tra il suo cardigan di lana e il torace in mostra. Tra la voglia di mostrarsi nudo e quella di proteggersi. Di abbandonarsi alla persona che lo racconterà e minacciarla per come lo racconterà, scherzosamente dice lui, ma non si sa mai (“Attento a quello che scrivi, ti vengo a cercare”).
Gli anni sono quasi sessanta, Sebino ha visto e vede la morte negli occhi, se ne frega dei convenevoli. Bastano poche cose per avviare i motori. Una bottiglia di rosso molisano, due fette di pizza con la mortadella al pistacchio e piatti che vanno e vengono. Il rosso aiuta a calarsi nel pozzo. In fondo al quale sta scritto chi è Sebino, un mistero per lo stesso Sabino. Dal tavolo di un ammiratore, un trasteverino da manuale, arriva un assaggio di stracciatella con whisky e pepe. Micidiale per chiunque. Roba per uomini veri. Per uno come Sebino, che picchia più di quanto viene picchiato. È la sua natura, il suo sangue misto sardo e ligure. Dinamite pura. La “partita più tosta, più ignorante della mia vita? Contro il tumore al colon, un nemico sconosciuto”.
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Godereccio” come si definisce lui, spirituale come non lo definisce nessuno, perché nessuno, pochi lo conoscono. “Questi anni che vivo mi piacciono tanto. Sono padre di due ragazze meravigliose, la mia testa funziona, posso sedermi in qualunque tavolo di un’osteria o di una casa altolocata e parlare di tutto”. Sebino il duro racconta di quante lacrime ha versato e risponde a chi domanda: “Il lusso della vita? Uno solo, la salute”.
La salute innanzi tutto.
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“Con quello che ho passato, diciamo che sto bene. Devo fare un’altra operazione a breve. Più breve tempo possibile. Sarà la quarta. Non ce la faccio più…”.
Che operazione?
“Ho il retto addominale aperto, le viscere spingono, mi esce sempre questo bozzo non bellissimo da vedere. Devo fare pulizia di un po’ di schifezza e mettere una rete di protezione. Dopo di che, continuerò i miei controlli ogni sei mesi”.
L’umore?
“Va e viene. Leggere o sentire ogni volta di persone che conosco che se ne vanno da un giorno all’altro mi spegne un poco”.
Vialli e Mihajlovic dopo di te, il tuo stesso male.
“Mi ha turbato molto saperlo. A Sinisa mando messaggi attraverso il nostro amico comune Vincenzo Cantatore. Con Gianluca eravamo in camera insieme al mondiale di Messico ’86. L’ho incontrato poche settimane fa, a Roma-Juventus. Ci siamo abbracciati. “Guarda che non si molla un cazzo”, gli ho detto. “Nemmeno di un millimetro”.
La tua guerra.
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“Due anni e mezzo di chemio non sono uno scherzo. Ti guarisce una cosa e te ne peggiora un’altra. Ho avuto degli attacchi ischemici. Ma la pressione è a posto, prendo tre pasticche al giorno e faccio la mia vita normalissima”.
Il tumore sembra cosa lontana…
“La cosa brutta di questo male è che gioisci, dici ho vinto, e poi scopri che a distanza di sei, sette, otto anni ritorna. Il cancro quando arriva non ti lascia più. Torna come realtà o come minaccia. Sta sempre lì”.
Hai visto la morte in faccia.
“Ho metabolizzato questa cosa. Non so quante volte mi sono ritrovato di notte a piangere nel letto. Ci ho pensato un miliardo di volte. E sai che ti dico, se domani dovesse succedere, ‘sti cazzi…”.
Come ci arrivi a questa conclusione?
“Ti parte un film di tutto quello che hai fatto, il bene e il male. Alla fine, sono soddisfatto della persona che sono. Non ho rimpianti, posso morire anche domani”.
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Parliamo di vita e di appetiti primari. A tavola mi sembri okay. Calici e piatti svuotati alla grande. Fai ancora sesso?
“Quando la fatica supera il piacere è l’ora di smettere. Scherzo? Mica tanto. Se il concetto lo sposti dal sesso al calcio è perfetto. Se ci pensi, un giocatore smette quando si alza la mattina e gli fa fatica andare al campo”.
L’immagine di Sebino Nela è quella del guerriero. Ti corrisponde?
“La gente che ne sa? Conosce la superficie, il calciatore. Non conoscono il Sebino privato, il suo carattere, le sue emozioni”.
Se devo raccontare Sebino Nela per come lo conosco non inizio dal macho guerriero ma dalla sua ipersensibilità quasi femminea.
LIEDHOLM - CONTI - DINO VIOLA - FALCAO
“Sono d’accordo con te. Penso alle tante volte che avrei potuto fare scelte diverse, avere una vita diversa, ma mi sono lasciato deviare dalle emozioni”.
Quanti soldi hai messo da parte con il calcio?
“Che cazzo di domanda?! Non si fa una domanda del genere a un genovese. Posso solo dirti che ho messo in sicurezza la famiglia”.
Parliamo di Roma e del tuo incarico oggi in società.
“Prima mi alzo e vado a farmi una sigaretta che sto impiccato…(al cameriere) Fausto, fammi due costolette d’abbacchio da sgranocchiare…Dopo voglio parlare di politica”.
(torna dalla sigaretta)
Da che parte stai in politica?
“Sono un democratico di destra. Sono per la patria, la tradizione, l’ordine e la disciplina”.
La vita è disordine e caos.
“Proprio per questo c’è bisogno delle regole”.
Voti Salvini?
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“No, a me piace molto la Meloni. La stimo come donna e come politica. La trovo una bella persona. Ha portato il suo partito dall’uno per cento a quasi il dieci”.
Diciassette anni da calciatore, tra Genoa, Roma, Napoli e Nazionale. Il compagno del cuore?
“Nessuno. Solo frequentazioni superficiali. Per molti anni ho dormito in camera da solo. La luce accesa e la finestra aperta, cose che possono dare fastidio a un compagno”.
Non posso credere che in tanti anni non hai messo da parte un rapporto che vale.
“Con Rudi Voeller sembrava una cosa importante. L’ho aiutato i primi tempi a Roma nelle sue cose private. Ci frequentavamo molto, anche con le famiglie. Per anni siamo andati a Leverkusen da lui in agosto”.
E poi?
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“Mi ha deluso e ho voluto interrompere il rapporto”.
Racconta.
“Fui chiamato da un calciatore della Roma per convincerlo ad accettare la panchina giallorossa. C’era da superare la resistenza della moglie. Normale a quel punto aspettarmi d’essere coinvolto. Lui di quella Roma sapeva poco e niente”.
E invece?
“Non mi ha nemmeno cercato. Sono rimasto amareggiato”.
Non ti lasci scivolare niente addosso.
“Posso dirti che anche con mia madre e mia sorella ho chiuso da anni. Ho sangue sardo nelle vene, forse la parte di cui sono più fiero. Quando mi sento ferito, quando mi fanno del male, dico basta e non torno indietro…Dimmi una cosa, tu verrai al mio funerale?”.
Magari vieni tu al mio…
“Ci puoi contare. Io vado ai funerali. Ci credo. Mi piace dare l’ultimo saluto alle persone che ho stimato. L’ultimo? Giovannone Bertini”.
Anche lui vittima dalla Sla come tanti altri ex Fiorentina.
“Se vai a leggere su internet diventi matto…Fai fatica a pensare che siano tutte coincidenze”.
Neanche con il tuo conterraneo bomber Pruzzo hai stretto un’amicizia profonda?
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“No. Siamo due caratteri completamente diversi. Lui è veramente orso. Tanti anni a Roma non lo hanno modificato. Io mi sono romanizzato, lui è rimasto quello che era. Un fortino inespugnabile. Bravo ragazzo, di una sensibilità unica. Noi l’abbiamo visto piangere, anche poco tempo fa”.
Mi ha raccontato la sua depressione.
“Non lo vedevo in quel periodo, ma mi riportavano tutto. Dopo cinquant’anni scopri cose meravigliose di una persona, le sue fragilità. Da calciatore vivi solo rapporti superficiali”
Persone fondamentali della tua vita senza le quali non ce la faresti.
“Convivo con i miei problemi, sono autosufficiente. Non mi devo aggrappare a niente”.
Un amico?
“Se sto toccando il fondo faccio uno squillo a qualcuno, ma senza far capire che sto a pezzi”.
Hai legato poco, eufemismo, con Paulo Roberto Falcao. Antipatia congenita?
“Non mi sta antipatico. Lui a Roma faceva vita a sé. Noi, io, Pruzzo, Ramon Turone, Chierico, stavamo magari da “Pierluigi”, il ristorante, a giocare a tressette fino alle quattro di mattina, lui se ne stava a casa, non usciva mai”.
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Magari non sa giocare a tressette.
“Per me far parte di un gruppo significa spirito di appartenenza. Lui aveva la sua vita, lo vedevamo solo in allenamento e alla partita”.
Era il cocco di Liedholm.
“Gli permetteva tutto. Decideva lui come e quando allenarsi. La domenica, prima della partita, noi tutti insieme per il pranzo delle 11, lui da solo a mangiare in camera”.
C’è poi la storia del rigore non tirato.
“A Roma c’è tutt’ora un’adorazione per Falcao. Anche per questo lui quel rigore doveva tirarlo. Tu pensi che il Totti di turno, Del Piero o Baggio si sarebbero scansati in una finale mondiale?”.
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Lui dice che stava male, che l’effetto delle infiltrazioni era finito. Che quella partita nemmeno doveva giocarla.
“Non esiste che tu non tiri il rigore in una finale di Coppa Campioni davanti ai tuoi tifosi. Tu, Falcao, devi essere l’esempio. Potevi stare pure zoppo, ma lo tiri, non me ne frega un cazzo. E lui zoppo non era. Ha sbagliato, mi dispiace”.
“Tornando indietro, lo tirerei, se avessi solo immaginato il casino”, mi ha detto.
“Lo devi tirare non per evitare il casino, ma perchè sei il giocatore più importante di questa squadra. Lo sbagli? Fa nulla. Saresti comunque rimasto l’ottavo re di Roma”,
Bruno Conti lo ha sbagliato e al suo addio c’era tutta la città giallorossa.
“Ci mancherebbe altro. Come se in guerra, alla battaglia finale, chi ti comanda scappa, diserta. Non te lo aspetti. Da quella sera ho dubitato di lui”.
Sei stato l’unico a prenderla così male?
“Non sono stato l’unico, ma sono l’unico a dirlo, così, a cuore aperto. Degli altri non me ne può fregare di meno. Se un giorno viene Paulo a Roma e c’invita tutti, probabile riceva un no da me. Io sono fatto così e non dico che sono fatto bene”.
Lo spogliatoio dopo quella finale?
“Non parlava nessuno. Sono uscite mille stronzate, di litigi, parolacce. Falso. Eravamo tutti annichiliti. Io dovevo prendere mio padre e mia madre che stavano allo stadio, me ne sono dimenticato. Sono andato dritto a casa
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La delusione più grossa: Liverpool o Lecce?
“Il Lecce. In una finale con uno dei Liverpool più forti di sempre non vai in campo convinto di fare una passeggiata, anche se perderla ai rigori ti rode”.
Quanto un calciatore si porta in campo i suoi problemi privati?
“Non era il mio caso. Io sono diverso. Allenarmi era uno sfogo liberatorio. Ho visto compagni travolti dai problemi personali. È umano”.
Non sei umano?
“Probabile. I pochissimi che sapevano della mia storia mi hanno fatto i complimenti per come l’ho affrontata”.
La storia molto difficile con la tua prima moglie.
“È stata durissima. Ti dico solo che in quel periodo giravo con una pistola in tasca e una volta ho dovuto anche usarla contro il cattivo di turno, che si è guardato bene dal denunciarmi. Per proteggere una persona cara sono disposto a tutto, non mi ferma nessuno. Vedi questo bicchiere? Se m’innamoro di lui e me lo vogliono rubare divento un animale”.
Il calcio è una bella e redditizia illusione. Poi c’è la vita reale.
“Auguro ai milionari di oggi, per il loro bene, di frequentare sempre tifosi che li faccia restare nella loro illusione anche quando smettono. Moriranno senza sapere cos’è la vita reale”.
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Non è il caso tuo…
“Non sono mai stato il prototipo del calciatore. Non ho potuto studiare, ho la terza media, ma, da autodidatta, mi sono fatto la mia piccola cultura. Sono curioso, leggo e m’informo di tutto”.
Perché Agostino Di Bartolomei si è ucciso?
“Lo stimavo immensamente. Un capitano vero. Come devono essere i capitani. Era malato dentro, nell’anima. Ci ho pensato anch’io, spesso, negli anni duri della malattia, ma non ho mai trovato il coraggio”.
Tentazione di fare l’allenatore?
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“Tre anni di corso a Coverciano. Ma lasciare la televisione per andare in un club minore e farmi cacciare da un presidente che non capisce un cazzo di calcio, non mi allettava. Mi sarebbe piaciuto fare il secondo a uno bravo. Non c’è stata l’opportunità”.
Fonseca ti convince?
“Ha dovuto lavorare tra mille difficoltà. Ho bisogno di un altro campionato per capire bene cosa sia. Per ora, giudizio sospeso. Mi piacerebbe vederlo incidere di più sulle scelte di mercato”.
Squadra di scarsa personalità o di scarso talento?
“La maglia della Roma pesa non so quanti chili. Roma è la squadra del popolo e il tifoso non è stupido. Non chiede lo scudetto, ma sa riconoscere chi dà tutto per la causa. Hanno amato giocatori come Piacentini e Oddi. Due piedi quadrati, ma ci mettevano il cuore”.
Zaniolo. Può essere lui la nuova identificazione del tifoso romanista?
“Non so cosa sente nella testa. Lui piace a tutti di suo, la corsa facile, la fisicità, i capelli. Dico solo, portatelo un giorno a Trastevere, dentro una macelleria di Testaccio, fategli respirare le viscere di Roma”.
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Il giocatore che più ha incarnato le viscere di Roma?
“Daniele De Rossi. Una volta lo vidi piangere in tivù, mi colpì e gli mandai un messaggio. Daniele l’ho visto crescere da bambino, allo Sporting a Ostia”.
Tu hai pianto per la Roma?
“Scherzi? Mille volte…Liverpool, Lecce, il Roma-Pisa quando morì il presidente Viola. Una settimana dopo a Bari, io che faccio il gol decisivo dell’1 a 0. Ho pianto a Roma-Bayern Monaco. Piangi pure dal nervoso a volte. Il bomber Pruzzo, prima della partita, giocava con la Juve o l’Ascoli, dava sempre di stomaco”.
Piangi in privato o anche in pubblico?
“Anche in pubblico. Non mi vergogno di piangere. Meglio che lanciare una bottiglia contro il muro. Piangere e fumare una sigaretta subito dopo. Che c’è di più bello?”.
Il disastro al ginocchio. Venditti ti dedicò “Correndo correndo”.
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“Non ti nascondo che l’ascolto ancora oggi quasi tutti i giorni e ancora mi commuovo. Mi piace girare in macchina da solo e commuovermi con la musica. Tornare indietro nel tempo. Quasi un anno fermo. Oggi, bastano sei mesi”.
Da due anni dirigente dell’As Roma femminile.
“Sono felice di questo incarico. Con le ragazze ho un bellissimo rapporto. Avere due figlie, una di 27, l’altra di 25, aiuta. Cosa mi ha sorpreso? La grandissima preparazione, l’enorme applicazione. Sono dilettanti come statuto, ma professioniste nella testa”.
Difficoltà?
“Sono umorali. Troppo. Un giorno ridono, scherzano, il giorno dopo meglio se non ti avvicini. Sono molto sensibili. Parlano spesso con le psicologhe che la società mette a disposizione. Non è una realtà semplice la loro”.
Il calcio maschile è molto omertoso sul tema dell’omosessualità.
“Se ci sono, sono bravissimi a nascondersi. Quando vivi il calcio femminile devi inevitabilmente confrontarti con questo tema”,
Elena Linari, giocatrice della Nazionale, è stata molto libera nel fare coming out.
“Loro non devono vergognarsi di niente, devono vivere liberamente la loro sessualità. Noto un po’ di resistenza a farlo”.
Come lo spieghi?
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“C’è paura dei contraccolpi nel movimento. Dire al mondo che il calcio femminile è fortemente connotato di omosessualità non spinge i genitori a portare le loro bambine alle scuole di calcio. Se questo succede, il movimento non cresce”.
Omosessuali ed etero convivono armonosamente?
“Il nostro è un gruppo di ragazze meravigliose. Poi ci sono le dinamiche di questo che è un mondo a sé. Mi raccontano di alcune che entrano etero e diventano omo o che provano l’esperienza omosessuale”.
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Perché non ti si vede più in tivù?
“Scelte aziendali. Probabilmente ho fatto il mio tempo. Avanzano le nuove leve. Siamo anziani, caro mio”.
Funzionavi come seconda voce.
“Non piacevo a molti. Mi rimproverano di essere troppo distaccato. Ma a me piace così. Non amo chi strilla. E non sopporto tutta questa tattica. Sono telecronache autoreferenziali. Mi devi spiegare il gesto tecnico. Voglio capire perché sbagli un gol fatto a un metro dalla porta o ne fai uno da venticinque”.
Il calcio che ti piace.
“L’Atalanta, il Verona. Mi piace il Sassuolo di De Zerbi. Il Lecce di Liverani.
Sta crescendo una generazione di allenatori che non hanno paura di osare. Se la giocano con tutti”.
Un allenatore sopravvalutato.
“Per l’esperienza che ho avuto io, Vujadin Boskov. Da lui non ho imparato niente. Né a livello tattico, nè gestionale. Ma, grazie a Dio, io sono stato un calciatore fortunato”.
La tua fortuna?
“Ho lavorato con allenatori come Nils Liedholm e Sven Goran Eriksson, gente di un altro pianeta”.
Li metti sullo stesso piano?
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“Due modi diversi di vedere calcio, ma avanti entrambi anni luce. Tutte le mie conoscenze calcistiche collettive e individuali le devo al Barone. Senza di lui sarei rimasto una zappa di calciatore”.
Alla vigilia dei sessant’anni…
“Da tempo sto pensando alla mia dipartita e sono sereno. Dovesse capitare non è un cruccio. Non ho rimpianti, nè sensi di colpa”.
Lo dici con questa leggerezza?
“L’unica cosa che vorrei chiedere, non so a chi, se a Lucifero, è di accompagnare all’altare le mie due figlie, Ludovica e Virginia, il giorno che si sposano”.
Sono vicine a farlo?
“Macché, stanno troppo bene a casa”.
Hai confidenza con le tue figlie?
“Non tanto. Ci basta guardarci negli occhi…”.
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