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Vittorio Feltri per “Libero quotidiano”
Qualche giorno addietro ho scritto per Libero un articolo sul conformismo politico, che ha radici profonde e antiche, quindi esso non costituisce una novità di questi ultimi tempi grami. Nel pezzo ricordavo che, allorché venni nominato diretto- re dell' Europeo, autorevole settimanale Rizzoli, la redazione istituì un comitato di accoglienza che contro di me, essendo io anticomunista, cioè non di sinistra, indisse uno sciopero di due mesi, record mondiale.
Vorrei aggiungere un altro episodio di cui fui dolorosamente protagonista, il quale conferma che ieri quanto oggi avere convinzioni politiche diverse da quelle in voga, ovvero non progressiste, procura soltanto guai e sottopone a campagne di sputtanamento feroce da parte di sedicenti intellettuali. E vengo al punto.
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Verso la fine del 1993 Silvio Berlusconi, constatata la crisi dei partiti provocata da Mani Pulite, ebbe l'idea di fondare un partito che rimpiazzasse la moribonda Dc e il moribondo PSI. Io non conoscevo il Cavaliere e, quando ricevetti una sua telefonata, rimasi di stucco. Mi fece i complimenti per il quotidiano che dirigevo, l'Indipendente, in forte crescita, poi mi invitò a pranzo.
Mi recai a Villa San Martino, Arcore, dove fui ricevuto dal maggiordomo, il quale mi fece accomodare in casa, informandomi che il signor padrone si era recato nel vicino eliporto per accompagnare un grande personaggio. Aggiunse: «Se vuole, percorra questo vialetto, così gli andrà incontro». Lo ascoltai e mi incamminai finché vidi Silvio che stringeva la mano a Gianni Agnelli in procinto di salire sul velivolo.
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Scena memorabile che osservai senza intromettermi. Poi Berlusconi mi raggiunse e rientrammo nella sua dimora. Mi parlò a lungo della intenzione di scendere nell'agone politico con una neonata formazione, tuttavia ignorava a chi affidarne la realizzazione. Mi fece il nome di Segni, poi quello di Martinazzoli. Mi pregò di fornirgli un parere e gli spiegai che il primo mi sembrava troppo tenero e il secondo troppo somigliante a un cipresso, benché molto intelligente.
FORZA ITALIA
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Precisai che l'unico in grado di guidare una esordiente forza politica era egli stesso. «Perché?», mi domandò. Risposta: «Ho fatto un sondaggio per sapere quale fosse l'Italiano più ammirato e lei è risultato al primo posto». Socchiuse gli occhi, e di lì a qualche giorno annunciò di essere il capo di Forza Italia. Da notare che Forza Italia era stata la denominazione di una trasmissione televisiva organizzata dal portiere dell'Inter, Walter Zenga, dal giornalista Nicola Forcignanò e dal sottoscritto.
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Controllare per credere. Quando Montanelli apprese che Silvio oltre a varie aziende si era regalato un partito, montò su tutte le furie e cominciò a meditare di lasciare l'impresa editoriale che si era costruito. E la abbandonò rendendo vacante la direzione. Si trattava di individuare un degno sostituto. Mica facile.
Nella più totale disperazione della amministrazione la scelta cadde su dime. Tentennai. Temevo di far rimpiangere il vecchio Indro nel giro di due o tre giorni. Alla fine, attratto dal compenso, firmai un contratto di lusso. E come i media furono al corrente della cosa si scatenò il finimondo. Me ne dissero di ogni colore.
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LITTORIO
L'espressione più gentile che la banda dei conformisti di sinistra mi dedicò fu la storpiatura del mio nome, che divenne Littorio Feltri. Fui bollato come fascista, venduto a Berlusconi, lacchè. Gli insulti che mi rivolsero furono travolgenti. Naturalmente abbozzai. Concita De Gregorio, inviata rossa de la Repubblica, vergò un pezzo su di me dipingendomi come un buzzurro che osava violare la poltrona del più grande giornalista italiano vivente, e mi prese in giro poiché da ragazzo avevo lavorato in un negozio come apprendista commesso.
Lavorare nelle ore diurne e studiare in quelle notturne per Concita è un'onta alla signorilità. Ingoiai parecchi rospi e non appena presi in mano il timone della baracca di via Negri ricevetti una cinquantina di lettere di dimissioni: mezza redazione si accodò a Montanelli allo scopo di fondare la Voce con il dichiarato proposito di ammazzare il Giornale. Si scatenò una guerra tribale fra i due gruppi editoriali.
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Finché un dì Indro ebbe la cattiva idea di accogliere l'invito a presenziare alla festa dell'Unità, dove venne fotografato con alle spalle una gigantografia della Quercia, simbolo del partito postcomunista. Pubblicai l'immagine con molta evidenza in prima pagina. Di qui la svolta: la Voce perse un mare di copie davanti alla prova visiva che Montanelli aveva virato sui progressisti, e il mio foglio tremebondo si trasformò in un gigante di carta. Le nostre vendite superarono quota 200 mila. Il pubblico conservatore non tollerò che il fondatore del Giornale avesse cambiato bandiera. E tornò all'ovile.
La sinistra intanto, dopo aver bistrattato per vent' anni il mitologico difensore della borghesia, ne divenne la principale sostenitrice in odio a Berlusconi. Un aneddoto di molto tempo fa. Fortebraccio, ottimo rubricista dell'Unità, vergò un corsivo velenoso contro quello che amava definire Cilindro.
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La frase più offensiva fu questa: «Montanelli scrive per le portinaie». All'improvviso, poiché questi si scagliava contro Silvio in ogni occasione, Indro fu portato in trionfo dai compagni. Il che non impedì alla sua creatura di crepare nella primavera del 1995. A decesso avvenuto, Panorama intervistò l'immenso prosatore di Fucecchio. Quesito: «Quando sfoglia il Giornale di Feltri che in edicola sbaraglia cosa pensa?». Risposta: «Mi sembra di avere un figlio drogato, che vellica i peggiori istinti del pubblico». Mia replica: «Esattamente come ha sempre fatto Indro»
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