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Francesca D'Angelo per la Stampa – Estratti
Il ruolo iconico – quello, per capirci, per cui tutti ricordano un attore – non sa cosa sia. In oltre 50 anni di carriera Massimo Ghini ha infatti macinato copioni su copioni, entrando e uscendo dai personaggi più disparati.
È passato da Shakespeare al cinepanettone (e viceversa), dal sottosegretario Valenzani di Compagni di scuola al Papa Buono di Rai Uno: mille volti, un intero arco costituzionale di personaggi centrifugato insieme, tra alto e basso, in un pirandelliano Uno nessuno e centomila.
La gente lo ama per questa dissacrante commistione di toni, «la critica un po' meno». Non ha mai vinto un premio, «ma ancora mi fermano per strada, sento l'affetto della gente». Quindi lui va avanti, continuando a mischiare le carte: perfino adesso, a quasi 70 anni. «Mi sto specializzando nel personaggio stronzo, pare abbia il physique du rôle»: scherza, divertito. «Se c'è da interpretare un uomo cinico e duro, chiamano me». E lui non si tira mica indietro, nemmeno quando Rai Uno gli ha proposto la provocatoria miniserie tv Gloria, in onda il 19, 26 e 27 febbraio.
Qui interpreta un agente squalo che immola tutto – morale in primis – sull'altare del "purché se ne parli".
Senza fare spoiler, la provocazione sollevata da Gloria è però grossa. Non teme polemiche?
massimo ghini franco schipani sabrina ferilli a new york
«Io e Sabrina Ferilli siamo cinici per mostrare il peggio della nostra società. È un po' quello che faceva anche Alberto Sordi: ti faceva ridere mostrandoti il degrado sociale. La famosa: "una risata vi seppellirà". Dopodiché, se Gloria darà vita a un dibattito, ben venga! Sarebbe bello se la tv fosse una fonte di confronto».
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Comunque poi anche lei si è rifatto velocemente.
«Mi prese Strehler e debuttai, a teatro a Parigi, con il Re Lear. Senza passare dalla bottega, a differenza degli altri colleghi. L'avvio è stato quindi molto bello, e per certi versi fortunato, ma tutto il resto è stato molto faticoso. La vera sfida di questo mestiere è infatti la resistenza nel tempo: mantenere il successo, più che ottenerlo. Bisogna studiare, tant'è vero che io stavo ore e ore dietro le quinte, a osservare, rubando il mestiere con gli occhi. Non potendo frequentare l'Accademia, mi sono guadagnato i gradi sul campo. Il mio maestro è stato Vittorio Gassman. Mi spiace solo che tutto questo mio lavoro non mi è stato ancora riconosciuto».
massimo ghini fausto brizzi foto di bacco
Si riferisce ai mancati premi?
«Esatto. Il così detto entourage non mi ha mai amato: l'unica nomination è arrivata l'anno scorso per A casa tutti bene. Prima per avere un riconoscimento dovevo uscire dall'Italia: all'estero, lì sì, mi tenevano in considerazione. Ci ho sofferto molto. Purtroppo l'Italia resta il Paese del posto fisso e questa logica vale anche per l'arte: se ti specializzi in un genere, la critica ti esalta. Ora però la vivo diversamente: sarà l'effetto dell'età, ma ho capito che quello che conta è la stima del pubblico».
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Come fu la sua infanzia?
massimo ghini foto di bacco (3)
«Difficile. I miei si separarono in un'epoca dove il divorzio non era socialmente accettato. Lo so, oggi sembra impensabile, ma a quei tempi era davvero un problema. Banalmente, quando mi assentavo da scuola dovevo portare la giustificazione "firmata dal padre o da chi ne fa le veci". Le mie però le firmava mamma e questa cosa straniva le insegnanti, che mi riprendevano. A un certo punto, decidemmo di falsificare la firma di papà e arrivederci e grazie… La mia fortuna è stata quella di essere sempre circondato da mamma, zie, parenti molto solari e positive».
Suo padre, funzionario del Partito comunista e partigiano combattente, fu deportato a Mauthausen. Cosa le raccontò di quell'esperienza?
«Nulla. O meglio, mi ha sempre narrato il prima e il dopo: mai quello che è successo durante. Non ce la faceva. E dire che era un uomo tosto. Posso solo immaginare la tragedia che ha subito: era poco più che ventenne…».
Lei che cicatrici ha intravisto in lui?
«Era un uomo ferito nell'anima. Senza contare che gli anni subito dopo la guerra erano politicamente molto duri: ricordo ancora che a volte mi chiudeva dentro lo sgabuzzino di una Sezione e poi usciva fuori, a darsele di santa ragione con i fascisti. Lui era molto impegnato: tutta la classe dirigente dell'allora partito comunista è stata di fatto tirata su da lui. Lo chiamavamo "il maestro" perché era il partigiano che aveva "preso la tessera in montagna"».
Cosa resta oggi di questo impegno politico?
«Molto poco da un lato, e molta confusione dall'altra. Basti pensare che oggi in Italia governa un'alleanza che in realtà rappresenta il 20% del Paese. Se infatti contiamo gli astenuti (oltre il 40%) e tutte le varie divisioni, siamo nelle mani di una minoranza che non arriva al 60%. Il dilagante astensionismo è un male per tutti i partiti: la gente non si preoccupa più della propria democrazia».
Lei resta sempre schierato a sinistra?
«Sì, certo, anche se bisogna decidere quale sinistra: ne nasce una al giorno. Purtroppo questa è una malattia endemica che la sinistra si porta dietro fin dalla sua fondazione: salta sempre fuori qualcuno che sostiene di essere ancora più a sinistra degli altri. A destra è più semplice: c'è uno che comanda e gli altri che lo seguono».
A ottobre compie 70 anni. Come vive il giro di boa?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
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