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Estratto del libro di Mario Calabresi “A occhi aperti” (Mondadori) – pubblicato da “Tutto Libri - La Stampa”
C'è una fotografia che non ho mai conosciuto, ma che ha fatto la differenza nella mia vita come in quella di tantissimi italiani, una donna che ha usato la sua macchina fotografica come strumento di impegno sociale, come arma per combattere uno dei poteri più oscuri e sanguinari della nostra Storia e come allarme per svegliare l'opinione pubblica.
Si chiamava Letizia Battaglia, il suo cognome era già un destino, era nata a Palermo e per quasi vent'anni - dal 1974 fino all'omicidio di Giovanni Falcone - avrebbe sfidato l'indifferenza, l'omertà e tutta quell'Italia che non voleva vedere la mafia, la negava, la minimizzava o la accettava come un maschio ineluttabile o un comodo alleato. Sarebbe stata la testimone della più terribile guerra di mafia della Storia, uno scontro che sarà da un lato fra clan, con l'affermazione dei Corleonesi che schiacceranno nel sangue tutte le altre famiglie, e dall'altro il conflitto totale con lo Stato, con il massacro di magistrati, politici, poliziotti, giornalisti, carabinieri. Una stagione che nel solo 1982 registrerà più di 200 omicidi e avrà il suo culmine nelle stragi di dieci anni dopo.
mario calabresi - a occhi aperti nuova edizione
La sfida di Letizia Battaglia, fin dall'inizio, è stata quella di puntare il suo obiettivo sui morti di mafia, sul sangue, sui funerali, sugli arresti, sui processi affinché nessuno potesse fingere che tutto ciò non esisteva. Il suo lavoro a Palermo, per documentare e denunciare quotidianamente, è stato incredibile e prezioso. Letizia Battaglia ci ha lasciato il 13 aprile 2022, poche settimane dopo aver compiuto 87 anni.
Sulla sua vita e sul suo lavoro sono stati pubblicati molti libri, prodotti documentari, una bella serie tv, e le sue mostre girano costantemente l'Italia, ma per conoscerla meglio sono tornato al punto di partenza. In un grande spazio che si trova a 700 metri dalla stazione centrale di Milano, nello studio di Gabriele Basilico, dove ha cominciato a prendere forma questo libro. Ci sono tornato perché lo studio di Gabriele è anche lo studio di Giovanna Calvenzi, storica photo editor italiana, curatrice di mostre e libri fotografici, scrittrice, moglie di Basilico fino alla sua scomparsa. Ho pensato che Giovanna, che nel 2010 ha pubblicato il libro Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, fosse la persona giusta per farmi da guida.
letizia battaglia shooting the mafia
Si erano conosciuti a Milano alla metà degli anni Settanta, tra loro erano nati un'amicizia profonda e un fecondo scambio intellettuale, tanto che casa Calvenzi-Basilico era diventata l'indirizzo milanese nelle puntate al nord di Letizia Battaglia. (Una notte tornò a casa prima di loro, chiuse la porta e lasciò la chiave nella serratura, poi si addormentò. Giovanna e Gabriele non riuscirono a rientrare, suonarono invano, e furono costretti a dormire fuori).
letizia battaglia shooting the mafia
A Giovanna ho chiesto di raccontarmi una donna che era molto più di una fotografa, per l'impegno con cui si dedicava a ogni cosa che faceva mettendosi sempre politica completamente in gioco, perché tutto per lei era. «Ho conosciuto tanti fotografi di giornali che erano al servizio di giornalisti, lei era al servizio della società e del suo cuore. E il suo cuore non riusciva a staccarsi dalla Sicilia, amava e nello stesso tempo detestava Palermo, ma non è mai riuscita ad andarsene. Ci ha provato, trasferendosi a Milano e a Parigi, ma poi tornava sempre. Ha avuto un ruolo fondamentale: dirigeva un gruppo di fotografi, prevalentemente uomini, del quotidiano L'Ora di Palermo e lo faceva con una sensibilità particolare per i problemi della città, un approccio che non era solo professionale ma pieno di umanità, con l' urgenza di fare qualcosa per la collettività.
Nel 1958, quando la parola «mafia» non la scriveva nessuno, pubblicò addirittura un'inchiesta in 21 puntate sulle complicità e gli interessi che garantivano al potere mafioso di proliferare. In quello stesso anno mise in prima pagina la foto di Luciano Liggio denunciando la sua ascesa come sanguinario boss di Corleone. La risposta non si fece attendere: cinque chili di tritolo nelle rotative dove si stampava il giornale. E negli anni quel coraggio e quella libertà vennero pagati al prezzo altissimo della perdita di tre giornalisti, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro e Giovanni Spampinato.
La bambina con il pallone di letizia battaglia
L'Ora fu un luogo di dibattito tra scrittori e intellettuali, e lo scenario per una generazione di grandi cronisti che avrebbero dovuto poi lavorare nei giornali di tutta Italia. In quel contesto si sviluppò l'attività di Letizia Battaglia e «le foto dei morti», sottolinea Giovanna Calvenzi, «erano delle testimonianze, lo strumento che lei e Franco Zecchin avevano trovato per combattere contro la mafia. Si sentivano anche loro in guerra».
Letizia Battaglia ha sempre fotografato in bianco e nero e solo molti anni dopo avrebbe detto di essersi resa conto che così facendo risparmiava la violenza del rosso del sangue. Nelle sue foto non c'è mai nulla di morboso, sono sempre asciutte, didascaliche.
Fotografare i morti è qualcosa che andrebbe evitato, non aggiunge nulla, rischiando di fare spettacolo del dolore.
Ma in questo caso è diverso, quasi necessario: Battaglia ha avuto il coraggio di mostrare ciò che tutti vedevano ma nessuno voleva vedere. Gli omicidi di mafia erano dei fenomeni collettivi, con i parenti che piangevano per ore e portavano le sedie per restare accanto al morto fino all'ultimo, con la folla - bambini compresi - che osservava in silenzio, quasi fosse uno spettacolo scontato e normale, qualcosa di ineluttabile. Ma poi sui giornali o in televisione tutto questo, la mattanza, non arrivava e si poteva continuare a far finta che nulla fosse accaduto.
mario calabresi foto di bacco (1)
«Letizia» mi dice Giovanna «sosteneva che erano foto obbligatorie, perché tutti dovevano essere informati di quello che stava succedendo. Ha portato la sua macchina fotografica dove nessuno andava, da quei morti che non facevano notizia. Ha continuato a scattare anche quando la minacciavano - telefonate, lettere anonime, insulti e sputi per strada - e il suo lavoro era circondato dalla paura, tanto che alla sua prima mostra non c'era pubblico, nessuno si prese il rischio di andare.»
Cercava di arrivare sempre per prima e, a differenza dei giornalisti che potevano confondersi nella folla, venivano inevitabilmente notati e riconosciuti. Anche perché non lavorava mai con il teleobiettivo, sosteneva che le fotografie non si rubano. E poi era l'unica donna in un mondo tutto di uomini. Spesso la bloccavano, non la consideravano credibile, anche per via di quell'abbigliamento hippy con gli zoccoli ai piedi e le gonne a fiori, come ha raccontato nella sua autobiografia scritta insieme a Sabrina Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia.
storie di strada letizia battaglia
A cambiare le cose ci ha pensato il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano - «Il primo sbirro che si era fatto amare da noi, moderno, colto, gentile, determinato e che aiutava giornalisti e fotografi nei momenti più difficili» -, che un giorno disse ai poliziotti che l'avevano fermata: «La signora deve fotografare».
Il 6 gennaio 1980, mentre sta tornando a casa sulla sua Seicento insieme a Franco Zecchin e sua figlia Patrizia, vede un piccolo gruppo di persone accanto a un'auto in Via della Libertà, si ferma pensando che ci sia stato un incidente. Nel momento in cui si avvicina vede un corpo che viene estratto con delicatezza da un uomo che lo solleva tra le braccia. Letizia scatta e fissa sulla pellicola un'immagine storica, anche se non ha ancora capito cosa sia successo. Scoprirà solo dopo di essere stata la prima ad arrivare lì dove hanno appena sparato al presidente della Regione Piersanti Mattarella, il cui corpo è tra le braccia del fratello Sergio, futuro presidente della Repubblica. Nell'auto, mentre Letizia Battaglia faceva la sua foto, c'erano ancora la moglie e la figlia di Piersanti Mattarella, che avevano assistito impotenti all'omicidio.
storie di strada letizia battaglia
Per aiutarmi a capire il metodo di lavoro di Letizia, Giovanna mi mostra una foto che Franco Zecchin le scattò sulla scena di un delitto, mentre lei era accovacciata dietro il cofano di una Fiat 128: «Quella era Letizia, che soffriva ma restava lì, non si spostava. Cercava il coraggio per continuare a fare il suo lavoro». Ma quando Boris Giuliano venne assassinato, la mattina del 21 luglio 1979, i suoi uomini le impedirono di fotografare e lei visse quel divieto quasi con sollievo, e scelse di ricordarlo fotografando un mazzo di rose che era stato messo sulla sua scrivania.
Con il passare degli anni, l'orrore aumentava, troppo sangue, troppe stragi. Anche documentare diveniva sempre più intollerabile, così nel 1983 non fotografò la devastazione provocata dall'autobomba che uccise il giudice Rocco Chinnici, l'ideatore del «pool antimafia», e quasi dieci anni dopo si fermò di fronte alle stragi che eliminarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme alle persone delle loro scorte. Non scattò nulla. Soltanto un anno dopo fece un bellissimo ritratto a Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani della scorta di Falcone. In quella donna con gli occhi chiusi c'era la dignità di chi era rimasto a combattere e ricordare.
[…]
Chiunque l'abbia conosciuta finisce per parlare dell'immancabile sigaretta: «Fumava continuamente, cinquanta sigarette al giorno, e ovunque, anche nei ristoranti e nei musei. Chiedeva sempre il permesso, le dicevano di no, ma poco dopo, come se se ne fosse dimenticata, accendeva la sigaretta. Il bello è che non le dicevano niente».
[…]
Letizia Battaglia non si è mai fermata, ha continuato a fotografare, ha fatto politica, ha fondato una casa editrice, allestito un centro espositivo, ma nella storia della fotografia verrà ricordata per quelli che lei chiamava «i morti ammazzati». Per quella scelta potente e dirompente che alla fine della sua vita vivere come una prigione. «Un mostruoso accalcarsi nella testa di urla, pianti, corpi straziati… quelle foto» ha raccontato a Giovanna Calvenzi «si mescolano ai suoni rivissuti, alle voci, alle sirene che attraversano la città e che comunicano che qualcosa di violento è successo. Tanti anni con l'incubo della sirena, del telefono che squilla. Anche oggi, l'incubo persiste».
Ho immaginato una donna inseguita costantemente dai demoni che ha incontrato e allora Giovanna mi ha indicato quella che era la sua salvezza: «Guarda tutto il lavoro che ha fatto sulle bambine. È bellissimo. Nelle bambine lei rivedeva se stessa quando aveva la loro età e guardava il futuro e la realtà con gli occhi pieni di aspettative. Le fotografava perché le ricordavano l'età in cui tutto è possibile, tutto può succedere e niente è ancora successo. Era il suo modo di coltivare la speranza e di contrapporsi all'immagine dei bambini che giocavano a fare i killer».
Poi Giovanna mi fa leggere le ultime righe del libro che ha curato, un pensiero finale scritto da Letizia. Una frase definitiva: «Avevo poco più di 16 anni. Era il 1951. Tra le mie braccia un piccolo miracolo di persona, uscito da me, dal mio corpo, Cinzia. Da amare, da curare, da nutrire. Nessuno ha scattato questa foto. Ma è questa l'immagine che ho in testa. In bianco e nero. Io e lei. E non ci sono fotografie, mostre, politiche o successi che possono sostituirsi a questo, al mio essere stata madre, al mio avere voluto essere madre, a 16 e poi ancora a 19 e poi a 25, al mio avere mescolato tutto, al mio essere cresciuti mentre loro crescevano. … La mia vita è stata anche piena di bellezza».
E quella bellezza, oggi, la coltivano i nipoti Matteo e Marta Sollima, che si occupano dell'associazione «Archivio Letizia Battaglia». […] Nel 2021, un anno prima di morire, Letizia iniziò a discutere con i nipoti il futuro dell'archivio e decisero di costituire un'associazione culturale «per fare in modo che non fosse solo un apparato disordinato di scaffali, libri, negativi, provini e timbro. Ci fu chiaro» mi spiega Marta «che il nostro compito sarebbe stato quello di catalogare, classificare e sistemare l'archivio, ma soprattutto di comunicare e aprire a scambi e scambi».
Matteo e Marta si sono dati solo una regola per portare avanti questo lavoro: «Non tradire mai le sue idee: non accettare mai proposte che non siano coerenti con la sua personalità e il suo modo di vivere». In questo senso si stanno impegnando a ricordare Letizia Battaglia non solo per i reportage di mafia: «Lei non era solo quello, non era una donna e una fotografa a una dimensione, era un'etichetta che le stava stretta. Amava molto i lavori sui bambini e sulle donne. Una delle foto che ci sta più a cuore l'ha scattata durante un viaggio in Groenlandia nel 1993: una madre e una figlia in un museo degli eschimesi. Qualcosa di lontanissimo dal suo immaginario». Matteo ci tiene che si ricordi che era stata anche editore, politico, giornalista, assessore, che si era battuta per i giardini, per ridare bellezza e dignità alla sua città, per combattere il degrado: «Alle 6 del mattino andava a parlare con i giardinieri, li trovava sempre al bar, e gli diceva di darsi una smossa: "Allora, quando cominciamo?". Odiava la pigrizia e la sciatteria».
Quando fondarono l'associazione, per Letizia era un periodo faticoso e difficile, nonostante la sua energia pazzesca sentiva che la fine si avvicinava: «Ci sono stati momenti di sconforto in cui ci disse: "Basta, mi sono rotta le scatole, voglio bruciare l'archivio, voglio buttare via tutto". Anche dopo le stragi aveva avuto la stessa reazione, infatti per un periodo smise di fotografarle. Ma negli ultimi giorni emerse un bisogno più forte, un'urgenza, e allora ci chiamò e ci chiese una sola cosa: "Non fatemi morire, portatemi avanti, fatelo voi"».
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