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Francesco Persili per Dagospia
«Certe notti? Non mi convinceva per niente come primo singolo dell’album ‘Buon Compleanno Elvis’. Per fortuna che i brani di lancio non li scelgo io...» All’Auditorium-Parco della Musica di Roma, intervistato dai critici musicali di Repubblica Gino Castaldo e Ernesto Assante, Ligabue ripercorre oltre 25 anni di carriera e racconta il suo ventesimo album (l’undicesimo di inediti) “Made in Italy”. “Una lettera d’amore al rock’n’roll”, come ha detto il suo batterista Michael Urbano.
Un viaggio lungo 14 canzoni tra rabbia, speranza, «favole dimenticate e treni che non sono mai stati una volta in orario» in cui il rocker di Correggio prova a dare voce «a chi, al tempo di Internet, crede di averla ma non ce l’ha”.
Il protagonista del racconto musicale è il suo alter ego Riko, che non è una versione lambrusco e pop corn dello Ziggy Stardust di Bowie, ma un uomo di mezza età incazzato con le banche che, dopo aver perso il lavoro, attraversa una odissea esistenziale. Un «concept album coraggioso», si compiace Ligabue: «In tempi di streaming, Youtube, ho avuto la presunzione di chiedervi - se volete seguire tutta la storia - di ascoltare un album per intero».
Il rocker emiliano non esclude di tornare dietro la macchina da presa («Negli ultimi 14 anni ho avuto la scusa di non avere una storia valida per girare il mio terzo film. Ora non ho più scuse perché la storia c’è») e promette di suonare il disco per intero nel tour che inizierà il 3 febbraio da Roma.
«Il rock? Non so se mi ha salvato la vita, sicuramente me l’ha resa più figa», ammette il cantante: “Come genere musicale il rock ha esaurito un po’ la sua spinta. Un tempo puzzava di rivoluzione e sapeva di aspettative...». Ligabue gonfia il muscolo della memoria. Porta sul palco il passato da ragioniere, il padre che l’avrebbe voluto laureato, i mille lavori, l’incontro con Pierangelo Bertoli («Andai a casa sua per fargli ascoltare qualche pezzo. Ho conosciuto una persona cazzuta che mi ha fatto credere in me») e quel discografico che stroncò “Balliamo sul mondo” dicendo: Sembra Guccini”.
«Mi piace che qualcosa di mio possa assomigliare alle canzoni di Guccini ma “Balliamo sul mondo”, no, dai... » sorride Liga che ammette il senso di colpa da «cattocomunista» per il successo piovutogli addosso dopo “Buon Compleanno Elvis” e sul rapporto con i suoi aficionados aggiunge: «E’ difficile dialogare con un mio fan perché lui sta cercando di parlare con la proiezione che si è fatto di me. Ma è la stessa cosa che potrebbe accadere a me se incontrassi Icardi al ristorante...», concede da vecchio cuore interista.
Dopo la lezione a Castaldo sul selfie «che si fa di sbieco», l’inevitabile passaggio sul Nobel a Dylan e sul rapporto tra testo e musica nelle canzoni. «Lui dichiarò di scegliere le parole delle canzoni per il loro suono. Magari dovrebbero pensare a un Nobel per la canzone e non farla sentire come la più sfigata delle arti». Sul futuro Liga sceglie la dottrina Stones: continuare a fare concerti ché il concerto per uno abituato al "buio di certi pomeriggi padani, è il momento della luce". Su e giù da un palco, come sempre. "Ancora oggi mi diverto a fare “Ballare sul mondo”, la routine mi piace". Sarà il suo passato da ragioniere.
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