DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Aldo Grasso per il "Corriere della Sera"
Udita ieri: «Mi risponda in trenta secondi, dobbiamo chiudere». Peccato che l'intervistatrice si sia inerpicata su per una domanda ben più lunga dei pretesi secondi. Non farò nomi perché la cattiva abitudine è molto diffusa. E, per quel che si riesce a monitorare, è vezzo tipicamente italiano.
Fateci caso: nei talk show, nelle conferenze stampe, nelle interviste la domanda non finisce mai, s' attorciglia, s' impaluda, si costringe a movimenti che hanno il rigore e l'arbitrarietà della cerimonia incantatrice. Soprattutto se accompagnata da quel «tu» di colleganza, irritante e frusto scampolo del ricettario della confidenza. Nel frattempo, il volto dell'interlocutore si va trasfigurando, tra lo smarrimento e il fastidio: sa che appena comincerà a rispondere, un'altra domanda incomberà per tarpargli la parola.
L'intervistatore, nel corpo della domanda, non solo si affida all'articolazione della retorica (dove impera «la mite disubbidienza dell'anacoluto») ma cerca di forzare la risposta verso i suoi orizzonti domestici.
La lunghezza della domanda, gesto insieme solenne e fatuo, adolescente e temerario, dà una precisa indicazione sulla sua funzione: il personaggio principale della narrazione, sia chiaro, resti l'intervistatore non l'intervistato (elemento peraltro fungibile, specie di questi tempi malati). «Il mio viso si intontiva davanti al tuo parlare difficile», dice il poeta.
Temo che la lunghezza delle domande dipenda da due fattori. Il primo è da ricercarsi nella scarsa competenza dell'intervistatore: meno sa della materia in questione, più si aggrappa una domanda a strascico, in modo tale da racimolare qualcosa per il vaniloquio. Il secondo è anch' esso strategico: più la domanda è pingue, ambigua, opaca, fitta di pieghe casuali, sintatticamente temeraria, più è percorribile in tutte le direzioni. Vuol dire tutto e dunque niente.
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