
DAGOREPORT - COSA FRULLAVA NELLA TESTA TIRATA A LUCIDO DI ANDREA ORCEL QUANDO STAMATTINA…
Mattia Ferraresi per “il Foglio”
C’è un momento, appena prima dell’inizio della cena, in cui Massimo Bottura circola nella zona franca fra la cucina e la sala guardandosi le New Balance, una mano sulla bocca e la testa chissà dove.
L’immagine del respiro prima del tuffo è, oltre che pigra, anche poco calzante: il tuffatore deve eseguire in modo perfetto la figura interiorizzata, provata fino a indurre un automatismo, lo chef deve guidare uno sforzo collettivo complesso e pieno di incognite, dove non tutto dipende da chi ha le mani sul volante.
E’ più un regista teatrale o un vecchio generale che s’apposta sulle colline, se non scandalizza l’immagine bellica, e nel tetris cerebrale incastra lo svolgimento della serata, mette in fila certezze e punti deboli, le cose note e quelle che non si possono immaginare, tipo l’impianto elettrico che non regge la domanda di calore in mezzo alla mantecatura del risotto cacio e pepe.
Una seccatura notevole, anche se in cucina, quando poi succede per davvero, nessuno esclama “che seccatura notevole!”. In una cucina che non conosci è tutto più difficile. In una cucina che non è proprio una cucina ma uno spazio riadattato, con le piastre elettriche da una parte e l’acqua da un’altra, con il personale di sala assoldato dal committente, i camerieri che non sembrano appena usciti dalla West Point del servizio a tavola, il numero delle variabili aumenta e il coefficiente di difficoltà si gonfia come un soufflé.
Anche nel momento della concentrazione e della solitudine il cuoco, tipo umano a sangue caldo, scambia qualche battuta con il cronista che gli sta fra i piedi: “Questo è il momento in cui sale la tensione, pensi a tutto, metti le cose in ordine. Qual è la cosa che mi preoccupa di più? La velocità del servizio”. Che all’orecchio del neofita può sembrare un pensiero minore.
Ma là fuori ci sono un’ottantina di collezionisti d’arte newyorchesi invitati da Sotheby’s a una cena al decimo piano del quartier generale della casa d’aste, a Manhattan. I tavoli, sobri e impeccabili, sono stati allestiti da una pattuglia di professionisti nel mezzo della galleria d’arte contemporanea, circondati da Fontana, Bacon, Koons, Hirst, Twombly, Pollock, Basquiat, Lichtenstein, opere silenziose che a tratti appaiono più vivaci di alcuni dei loro potenziali acquirenti.
A vegliare sulle operazioni c’è lo sguardo ironicamente severo del Mao di Andy Warhol, uno sguardo che qualche giorno più tardi è stato venduto per quarantasette milioni e mezzo di dollari. Gli ospiti che sorseggiano Franciacorta mentre fanno “mingling” non sono collezionisti, sono i padroni dell’universo dell’arte, è una crème transnazionale spremuta fuori da una scena di “Back to Blood” di Tom Wolfe, e la disinvoltura di questa tribù artistica si deduce dai calzini a righe, dalle tonalità più che informali, dagli accenti britannici, dal fatto che non tutti gli uomini indossano la cravatta.
Per i collezionisti di medio livello o per la new money spaccona che si vuole buttare sull’arte Sotheby’s organizza ottimi aperitivi dove sguinzaglia l’esercito di critici e pierre, mette insieme domanda e offerta, allarga il bacino d’utenza; per le teste di serie invita Bottura e la sua Osteria Francescana.
L’appartenenza comune degli ospiti alla classe dei fuoriclasse rende fuori luogo l’eccesso esplicito, la stravaganza da red carpet, e in sala ci sono giusto alcuni spessi strati di fondotinta – anche i padroni dell’universo dell’arte raggrinziscono – che ricoprono altrettanto spessi strati di ego.
L’invitato di questo tipo di serate non è un facoltoso acquirente, è un iniziato. E l’iniziato tende a notare se viene servita cinque minuti dopo l’iniziato del tavolo a fianco, lo stesso con cui poco prima condivideva sorridente una scaglia di Parmigiano-Reggiano di 32 mesi innaffiata con un filo di aceto balsamico di 49 anni sullo sfondo di un Cy Twombly da 70 milioni di dollari. Tende a notare e a indispettirsi con garbo.
Inoltre, sono iniziati di New York, la città dove la gente in ascensore preme compulsivamente il bottone per chiudere le porte e i tassisti danno un colpo di clacson prima ancora che il semaforo diventi verde, una città che non ha tempo di aspettare un cameriere svogliato.
Si capisce meglio perché Bottura è preoccupato della velocità del servizio più che della qualità della cena, sulla quale ha certezze granitiche. Anche da questi dettagli passa la differenza fra un ottimo chef e tre stelle Michelin. I camerieri si mettono in fila, nei piatti hanno un trionfo a forma di mela di sapori autunnali scovati al mercato di Union Square, con un titolo cinematografico: “Autumn in New York”. Quando i primi quattro sono pronti, il capocameriere francese apre le danze: “Go!”. E tutti dietro: “Go, go, go, gooooo!”.
Bottura parla dei vasi rotti di Ai Weiewei e di “palato mentale”, chiama i suoi piatti “compressioni masticabili delle mie passioni”, una sintesi pseudofuturista, dialoga con i piani alti della cultura internazionale, racconta degli scienziati giapponesi che studiano l’abbinamento parmigiano-balsamico, che è un trattato palatale di filosofia zen, ospita all’Osteria Francescana Renzi e Hollande che discutono di bombardamenti allo Stato islamico, e poi dice “darci a mucchio”, un meraviglioso emilianismo di andamento popolare. Non che voglia darci a mucchio – cioè gettare la spugna – proprio ora, s’intende, parla di fantasmi del passato.
Dice proprio così: “Ho avuto una vita talmente difficile all’inizio in questo campo che più volte ho avuto voglia di darci a mucchio”. Ha lavorato a New York, a Monaco, in Spagna, in Francia, gira costantemente per il mondo, vive negli aeroporti, ha un ristorante a Istanbul, parla seduto a un tavolo del bar di un tempio dell’arte mondiale, ha il tratto scapigliato del genio cosmopolita, ha sposato un’americana e scelto un giapponese come suo scudiero nella cucina di una città orgogliosamente provinciale, ma l’accento modenese non è arretrato di un centimetro.
Pier Vittorio Tondelli, altro genius loci emiliano, diceva che la gente di quelle parti ha “una sorta di attaccamento buio alla propria terra”, senonché in Bottura non c’è molto di buio, tutto si svolge nella parte più calda dello spettro degli umori.
Si fa giusto un po’ pensoso quando si nomina il Campazzo, la trattoria degli inizi, una casa di campagna sulle strade che s’inoltrano nella bassa, nel punto in cui il Secchia e il Panaro, che sono il Tigri e l’Eufrate della mezzaluna fertile modenese, sono più vicini: “Certo che in trent’anni ne abbiam fatte delle cose…”, dice, ricapitolando mentalmente.
“Ma io dovevo seguire un’altra strada, quella che mi ha portato qui stasera e che mi ha portato a fare cose che forse hanno rivoluzionato la cucina italiana. Abbiamo preso la tradizione e l’abbiamo spaccata, come un vaso di duemila anni, ma senza rigettarla. Soprattutto noi emiliani non possiamo perdere il patrimonio che abbiamo, ma non possiamo affogare nella nostalgia, dobbiamo sempre cambiare, partendo da basi solidissime.
Stasera, per esempio, serviamo la parte croccante della lasagna: diamo a tutti questi newyorchesi l’esperienza di ogni ragazzino emiliano che ruba uno dei quattro angoli delle lasagne appena la teglia arriva in tavola”. Quando voleva “darci a mucchio” e abbandonare è stata Lara a convincerlo: “Pensa, proprio mia moglie, che è newyorchese, mi ha spinto a rimanere, a tener duro, continuava a dirmi: se non ce la fai nel posto in cui sei nato ti porterai questo peso per tutta la vita.
La casa è davvero il luogo più duro, è incredibile. Fortunatamente sono uno che ascolta, e ci sono stati alcuni a Modena che mi sono stati veramente vicino, mi dicevano ‘dai non provocare in quel modo’, cerca di parlare il linguaggio dei modenesi, che quando ti sono leali poi non ti mollano più.
La provincia è così: bisogna prendere gli aspetti positivi ma non farsi fagocitare: devi andare in giro per il mondo e assorbire tutto, e quando torni a casa volare basso. Pensa che io ho aspettato tantissimo prima di prendere una Maserati o una Ferrari, e me la volevano dare da tenere in azienda. Gli dicevo ‘no per carità non me la date che poi dicono che mi son montato la testa’. Ad aprile mi han convinto e adesso son tutti lì che dicono ‘ahhhh, c’ha la Maserati!’”, e ride di gusto.
“Listen to me, please! Listen to meeeeeeee!”, “via, via, via, via, viaaaaaa!”, “dammi the next one… the next one… the next one”, “Alleeeez, alleeeez!”, “shut up, guys!”, “ho bisogno di te per il purèèèèè!”, “l’arancione non va bene”, “bene, ecco, così”, “qui non dobbiamo pisciare fuori”, “forza con quel filetto!”, “posso fare i complimenti allo chef?”, “quanti te ne mancano per chiudere il tavolo?”, “more or less like…”, “quanti te ne mancano?!! How many?!!”, “vai col pane!”, “ma non ci sono i piatti!”, “e allora vai coi piatti, no?!”.
In cucina le cose funzionano, i ragazzi della Francescana – età media bassissima – sfornano e impiattano al ritmo giusto su piatti immacolati che sono stati spolverati due volte con precisione orientale. Il servizio gira come il centrocampo di certe squadre appena finita la preparazione estiva: gambe pesanti e testa ancora in vacanza.
C’è il gruppo dei francesi e quello dei brasiliani, in simpatica rivalità, ragazzi rumorosi che si concedono qualche libertà di troppo sotto lo sguardo attento, a momenti severo, di Lara, che è il crocevia di tutti i segmenti della cena. Un inserviente che sta nel lato invisibile della cucina s’aggira nel backstage senza la giacca, soltanto con una maglietta della salute (“very unprofessional”) che valorizza il tatuaggio a motivo enologico sul bicipite. E’ l’addetto a stappare le bottiglie.
Sembra appena uscito da un club con la musica troppo alta, tormentato dall’idea di cambiare vita e arruolarsi nella legione straniera o fare il mozzo in una nave che sta per salpare dal porto di Marsiglia.
Nell’area della cucina si sfiorano vite incognite e misteriose, è uno spazio di stretta condivisione, un po’ come un vagone della metropolitana, ma qui non ci si può fare schermo con un giornale o con un tablet, non si può fingere di dormire, bisogna guardarsi negli occhi.
Arriva il “Black and White”, il risotto con il tartufo bianco e nero, poi le croste di lasagna, strutture tricolori di pasta croccante conficcate in una nuvola di una besciamella così densa e spumosa che vien voglia di infilarci il dito. Proprio come ai giovani emiliani di chissà quante generazioni veniva voglia di rubare gli angoli bruciacchiati dalla teglia appena portata in tavola.
“E’ la cosa più importante che ho fatto”. Delle tre stelle Michelin, delle cene per i capi di stato, dei piatti che dialogano addirittura con l’arte contemporanea, dei grandi riconoscimenti della cucina internazionale che riceve costantemente è orgoglioso, e non lo nasconde, ma quando parla del Refettorio Ambrosiano gli viene il groppo in gola.
“Abbiamo provato a rispondere a questa domanda: cosa significa servire il pianeta?
Innanzitutto è combattere lo spreco, e se combatti lo spreco ti trovi fra le mani 1,3 miliardi di tonnellate di cibo che normalmente viene buttato. Quello che è nato da lì un progetto culturale, perché non era solo charity, ma la creazione di un ambiente come poteva essere il refettorio di Leonardo, dove ti sedevi a mangiare circondato dall’arte.
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