
CAFONAL! - DIMENTICATE I GRANDI MATTATORI, ANGELO MELLONE È CAPACE DI SPETALARE FIORELLO IN 15…
“MANI PULITE SCOPPIO' QUANDO IO VENNI INDAGATO" – UMBERTO CICCONI, IL FOTOGRAFO DI BETTINO CRAXI, APRE IL BAULE DEI RICORDI: “NEL 1989, QUANDO LO SOLLECITARONO AD ADOPERARSI PER FAR CADERE IL MURO DI BERLINO, ANDREOTTI LO IMPLORÒ: “NON FARLO, BETTINO, QUELLA SARÀ LA NOSTRA MORTE" - AD HAMMAMET VEDEVAMO I FILMATI DEL DUCE. MA LA CONSIDERAZIONE DI BETTINO PER MUSSOLINI TERMINAVA CON L’OMICIDIO MATTEOTTI” - "SIGONELLA? SUBITO DOPO LO SENTII RIDERE CON REAGAN. HO SEMPRE AVUTO IL SOSPETTO CHE TRA LORO CI FOSSE UN ACCORDO" – IL SEQUESTRO DEGLI SCATTI TRA LUI E LA SUA FIAMMA ANIA PIERONI, LE MONETINE DEL RAPHAEL E QUANDO JOHN GOTTI, POTENTISSIMO CAPOMAFIA AMERICANO, GLI OFFRÌ UN LAVORO: “RISPOSI CHE AVEVO GIÀ UN BOSS E NON LO AVREI MAI LASCIATO…”
Alessandro Fulloni per corriere.it - Estratti
Clic: Craxi pensieroso, sotto una gigantografia di Pietro Nenni. Clic: Craxi con i grandi della terra, Ronald Reagan, Margaret Thatcher, François Mitterrand. Clic, clic, clic: Craxi che scavalca una sbarra con vigore giovanile, che spara al tirassegno di un lunapark, che parla in un affollato comizio a Milano. Clic: Craxi bersagliato dalle monetine, fuori dall’hotel Raphael.
E Umberto Cicconi, 66 anni — romano di Ostia, periferia da romanzo criminale — sempre lì, sempre accanto a lui, sia all’apice del potere, sia nella polvere del deserto tunisino. Un’ombra continua, visto che del leader socialista, Cicconi è stato il fotografo personale dalla fine degli anni Settanta sino al giorno della scomparsa, il 19 gennaio 2000. Ma non solo: ne è stato anche amico, confidente, uomo di fiducia, quasi un terzo figlio. Come Bobo, come Stefania.
Umberto, cominciamo con un avviso di garanzia...
«Sì, quello per corruzione che mi giunse un paio di settimane prima che, il 17 febbraio 1992, venisse incriminato Mario Chiesa, il mariuolo del Pio Albergo Trivulzio, come lo bollò Bettino».
In sintesi: si può dire che Mani pulite scoppia quando lei viene indagato. Solo che nessuno lo sapeva...
«Più o meno è così».
Che successe?
«Mi notificano l’avviso mentre esco di casa per accompagnare Laura, allora mia moglie, dal padre ricoverato in ospedale, a Roma. Due uomini mi intimano di seguirli. Lei mi guarda torva, ma la capisco. “Laura, devo andare per forza”, “ma almeno viello a vedè”. Niente da fare, mi allontano in Vespa con una specie di scorta, un’auto davanti e una di dietro».
Poi?
«Raggiungo il tribunale, a piazzale Clodio. Salgo al quarto piano, quello dei gip. Due in borghese, che per me erano 007, si avvicinano e uno mi dice: “noi sappiamo che lei non c’entra niente”.
Parole ripetute poco dopo, tali e quali, dal magistrato. Che però mi contesta una mazzetta da cinque milioni di lire, l’avrei chiesta per favorire un permesso di ampliamento per un ristorante ai Parioli. Sebbene nelle carte giudiziarie ci fossero altri nomi, mi viene fatto capire che erano interessati unicamente a “Umberto Cicconi, l’uomo di Craxi”».
Ecco. E Bettino?
«Mi precipito a comunicarglielo. Ma lui sapeva già tutto perché Renato Squillante, capo dei gip, lo aveva informato di persona. Ha chiaro che è un messaggio per lui, glielo aveva detto pure Renato... Eppure fa finta di non capire e mi chiede: “Dimmi la verità, cos’hai combinato?”»
E lei?
«Divento una belva, grido: “Ma che fai? Sai che se avessi fatto qualcosa te l’avrei detto per primo! Finiscila con questa farsa!”. Quando poi esplode Tangentopoli, mettiamo tutti questi pezzi assieme e io sbotto: “Hai fatto il tuo percorso, adesso basta!”. Se mi apprezzava, era anche per la mia franchezza. Era cominciato l’accerchiamento, ma lui non se ne rendeva conto».
Quando vide Craxi per la prima volta?
«Al Midas, il 16 luglio 1976, il giorno in cui venne detronizzato Francesco De Martino e cominciò la sua leadership. Avevo 17 anni, ero con mio padre Edoardo, netturbino impegnato in politica, con un gran seguito elettorale nella periferia di Ostia dove si era stabilita la mia famiglia, arrivata dalla borgata di Pietralata».
Origini umili, le sue.
«Stavo per nascere in una baracca, mi portarono di corsa con una Seicento in un ambulatorio a San Basilio. Mia madre Gianna diceva che appena nato ero bruttissimo, con le gambe storte. Mi raccontava: “Io non ti volevo. Dicevo: ‘Questo non è mio figlio, l’altro neonato accanto è mio figlio’”».
(...)
Tra i suoi amici oggi c’è pure er Palletta, Raffaele Pernasetti, un curriculum penale interminabile e un pezzo da novanta della «bandaccia». Su Instagram, dove lei posta le sue strepitose istantanee della Prima Repubblica, siete assieme in un paio di scatti…
«Ci conoscemmo da «Oio a casa mia», trattoria a Testaccio. Amicizia vera, lui è uno che non ha mai tradito».
La fotografia come arriva nella sua vita?
«Per caso. Mia madre, preoccupata per l’ambiente che mi circondava, cercava in tutti i modi di spostarmi lontano dal litorale, verso Roma. Così cominciai a lavorare come fattorino per l’Alleanza nazionale dei contadini, area Psi. Non guadagnavo molto, ma mettevo via qualche soldo. Nel frattempo, mi divertivo a fare fotografie».
(…)
Perché Bettino si accorge di lei?
«Per trovare volti da pizzicare, bazzicavo via del Corso, la sede del Psi. Scattai una foto a Nenni che camminava tra i passanti e la vendetti a Panorama. Bettino la vide, gli piacque, mi fece chiamare da Daniela Scarso, la portavoce. Lui fu di poche parole e dopo avermi squadrato mi fece: “Tu sei uno spirito libero!”. Ancora non sapevo che stava già creandosi una rete di supporto per sostenere la sua immagine sui media. Ma ne stavo facendo parte».
Bobo, secondogenito di Bettino, non è solo un suo amico. Ma anche suo cognato...
«Ha sposato Scintilla, per tutti Scilla, mia sorella. Anche lei di sinistra, piena di ideali, voleva fare la rivoluzione. Io la portai al partito, mi dava una mano a classificare il mio archivio fotografico che stava diventando sconfinato. Si conobbero nel 1988, entrambi ventiduenni, frequentandosi in mia assenza, quando accompagnavo Bettino in giro per il mondo. M’imbestialii, conoscevo a fondo Bobo, sapevo che con le ragazze voleva solo divertirsi. Lo affrontai a muso duro: mi rispose che con Scilla faceva sul serio. Era vero, sono una bellissima coppia».
Craxi le permetteva di pubblicare tutte le foto?
«Un giorno mi convoca Daniela Scarso e mi chiede: mi fai vedere quel servizio che hai fatto a Genova? Poi guarda tutti e quaranta gli scatti trattenendo però gli ultimi quattro che consegna a Bettino. Lo avevo ritratto a una manifestazione, ma era vicino ad Ania Pieroni, sua fiamma all’epoca, l’attrice che poi divenne proprietaria dell’emittente Gbr. Ero fuori di me, così entrai nel suo ufficio e mi alterai: “Bettino, non è giusto: o mi dai fiducia o non me la dai. Sono il tuo fotografo personale e di questa storia non sapevo nulla, avesti dovuto informarmi».
Che significava essere il «fotografo personale» di Craxi?
«Stargli sempre attaccato, appiccicato, notte e giorno. Fare tutto che chiedeva, pure quando voleva che indagassi sugli eventuali complotti di Martelli contro di lui».
Ma che fine hanno fatto poi quelle quattro foto con Ania Pieroni?
bettino craxi e la moglie anna
«Non mi disse nulla, mi bastava uno sguardo con lui. Ma me le fece riavere tramite Daniela».
Di Sigonella che ricordo ha?
«Il palestinese Abu Abbas non venne consegnato agli americani e il piano italiano per la sua liberazione non incontrò mai ostacoli. Ma all’una e mezza di notte, a incidente appena concluso, al Raphael arrivò una telefonata di Reagan a Bettino. Ero fuori dalla stanza, sentii la sua risata fragorosa. Non seppi mai di cosa avessero parlato. Nonostante fossi la persona più vicina a lui, non riuscii a strappagli alcuna confidenza. Ho sempre avuto il sospetto che tra loro ci fosse un accordo. Del resto durante i successivi G7, con Reagan sembravano amici di vecchia data».
Come andò quella volta che John Gotti, potentissimo capomafia americano, le offrì un lavoro?
«Nel 1988 accompagnai Bettino a New York. Una sera lui non volle uscire e l’autista della delegazione, un simpaticissimo italoamericano, insistette per cenare in un ristorante a Little Italy. Non un caso. A tavola, ci arrivò una bottiglia di champagne offerta da commensali vicini. Tra loro John Gotti, cortesissimo: “Sit down, noi sappiamo chi sei, ci piaci, potresti rimanere qui, ti daremmo una mano”. Risposi che avevo già un boss, non lo avrei mai lasciato. Quando glielo raccontai, Bettino si sbellicò».
Arriviamo ad Hammamet. È vero che lei da Roma portava a Craxi i filmati dei discorsi del Duce presi dagli archivi Rai?
«Non solo. Avevo fatto arrivare in Tunisia anche il macchinario, finito chissà come da un rivenditore al Trullo, con cui proiettare quelle ingombranti cassette Betacam. Ci vedevamo certe scene, le bonifiche, l’Agro romano, lui ed io da soli. Scherzavo: “mo’ domani lo racconto a tutti” e lui rideva: “Umberto che dici!”. Ma la considerazione di Bettino per Mussolini terminava con l’omicidio Matteotti. Il Duce aveva fatto ammazzare un compagno di partito, niente ricami su questo».
Cicconi, di cosa si occupa oggi?
«Bettino mi spinse sin dal 1984 ad acquistare gli archivi dei grandi fotografi che si avviavano alla pensione. Oggi posseggo sette milioni di negativi e lastre e ogni immagine è un romanzo della storia d’Italia. Anziché Bot e case, ho investito i miei risparmi in questo modo.
Ho l’archivio del fotografo personale di Mussolini, Adolfo Porry Pastorel, e di Spartaco Appetiti, fotografo per mezzo secolo al Vaticano. Con la Fondazione Allori, dedicata a mia madre, e con l’aiuto del sindaco di Acuto, Augusto Antonini, ho in previsione tre mostre, una su padre Pio, poi su papa Giovanni Paolo II e infine su Bettino; si terranno nel vecchio ospedale di questo borgo ciociaro dove è custodito il materiale e che dovrebbe diventare un centro culturale».
Mani pulite a parte, dov’è inciampato Craxi secondo lei?
«Nel 1989, quando lo sollecitarono ad adoperarsi per far cadere il muro di Berlino, Andreotti lo implorò: “Non farlo, Bettino, quella sarà la nostra morte”. Previsione azzeccata, purtroppo lui non comprese quel consiglio. Poi ebbe tutti contro».
Ma quella sua tribolazione giudiziaria come terminò?
«Si trascinò per qualche anno e l’udienza conclusiva fu a porte chiuse. Davanti al mio avvocato, Roberto Ruggero, chiesi al giudice di intervenire. Spiegai che ero andato a lezione da un cantautore ma che non avevo imparato a cantare. Finì che venni assolto».
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