DAGOREPORT - SUL PIÙ TURBOLENTO CAMBIO D'EPOCA CHE SI POSSA IMMAGINARE, NEL MOMENTO IN CUI CRISI…
QVIRINO CONTI per www.dagospia.com
La Moda che tanto ha saputo immaginare per ricche vedovanze sconsiderate, in verità non ha mai avuto eccessiva dimestichezza con il lutto e i suoi rituali. Tanto che gli addii è solita elaborarli (come si dice) paganamente, come nell’antichità: con cerimoniali simili ai giochi e alle corse di bighe, quali si proclamavano in memoria di un illustre trapassato.
Lo Stile, dopo qualche lacrima di circostanza, per tali momenti si è adeguato, inventando il liquidatorio e mondanissimo “Tribute”. Qualche chiacchiera, sfoggio di mezzi e poco più. E in quello celebrativo del magnifico Lagerfeld, nomi eccelsi lì selezionati ne escogitavano uno ulteriore, sul tema “A Tribute to Karl: The White Shirt Project”. Con camicie – la grande fisima del Sassone – riprodotte in poche decine di esemplari, progettate dai nomi più eccellenti (da Diane Kruger a Kate Moss, Cara Delevingne, Amber Valletta, Lewis Hamilton, Alessandro Michele) e poi naturalmente vendute a fin di bene.
Tutto perfetto e come da copione: per l’ennesima gara in onore di chi non c’è più. Purtroppo, durerà quanto il profumo di una viola. E sul flebile tuono di un ennesimo evento, in men che non si dica il rimpianto per la genialità del Kaiser finirà in un tecnologico cestino: anche se dorato e magari in stile Post-Biedermeier.
Il fatto è che la Moda nasce come una lunga e lenta evoluzione commerciale: quindi con un’origine artigianale, popolare, mai borghese né colta, occasionalmente aristocratica. Dunque, con un innato Dna mercantile, materialista e razionale, di certo sostanzialmente anti-intellettuale. Fino a quando, intorno agli anni ottanta del secolo scorso, la sua astuzia contabile non le suggerì un impensato legame con l’arte. Naturalmente, a Parigi tutto ciò era già stato sancito da numerose e felici complicità: ma Oltralpe il modo di far danaro è sempre stato diversissimo dal nostro, molto più sofisticato e sprezzante. Da qui, con numerosi episodi esemplari a disposizione, la tragedia di un mestiere sempre in bilico – a seconda delle convenienze – tra il più stretto pragmatismo e una mai riposta velleità culturale.
Gli stilisti ne furono la più classica ed evidenziata semplificazione: eternamente sospesi, come su un filo teso, tra riduzioni affaristiche e velleità semipoetiche (per la felicità di Andy Warhol). Insomma, assatanati maneggioni con le mani in pasta nella più superficiale faciloneria e insieme squisiti autori da tutelare in torri impenetrabili. Quindi, nel dubbio, con il classico piede in due scarpe; quella del volgare e dell’ordinario usuale e l’altra, quella del museo e dell’arte contemporanea (e comunque anche lì in ottima compagnia: nel trittico artista-gallerista-critico). Da noi, con la velleità di essere tutelati da un ministro che è lo stesso per i musei e le bellezze del Paese, ma anche da prezzolati “giornaloni” pronti a snocciolare (senza averne alcuna verificata documentazione) cifre e fatturati ottenuti spremendo il marchio con un logo, magari in un mercato parallelo.
Insomma, per tornare al nostro personaggio pluricelebrato, Karl Lagerfeld era un genio o un abile manipolatore? (Benché nello stile si tenda a considerare i due termini del tutto intercambiabili.) Quel che ha fatto, pertanto, è incomparabile come l’arte – stando a prezzi e grancassa – o è semplice abbigliamento impastato di eccezionale promozione? (E in questo secondo caso, non necessariamente meritevole di spazi culturali o di apprezzamento cronachistico.) E se un genio insuperabile come si è celebrato in vita e in morte, come pensare di sostituirlo? Si potrebbe forse sostituire Ronconi? Strehler? Fellini? O Chaplin? Savinio e Kounellis? O la Callas? Dunque, sono il danaro e il padrone a stabilire l’immortalità di un creatore e la sua sopravvivenza in corpi estranei, come per la più classica delle reincarnazioni? Basta un nome per farne quel che si vuole? Persino sostituendo quello di un nuotatore olimpionico con quello di un alpinista?
Questo è lo scempio: una violenta e accondiscesa sostituzione delle carte in tavola. Ed è probabile che lo scorrettissimo Karl Lagerfeld, dai suoi Campi Elisi, ne sia ben contento: godeva come un pazzo a prendere per i fondelli chi lo pagava, adulandolo.
“L’arte stessa deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire” (Michel Foucault, nell’ultimo corso tenuto al Collège de France). Aggiungete all’arte la Moda e sembrerà scritto pensando al coraggio e alla bellezza di Prada, così come di Galliano.
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