DAGOREPORT – CHI È STATO A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA DELLE DIMISSIONI DI ELISABETTA BELLONI? LE…
Marianna Rizzini per “il Foglio”
andreotti intervistato da tatti sanguineti
In principio c’è uno strano sogno, e c’è un Giulio Andreotti liberato del peso del potere che si alza in volo sul traffico di Roma come in un film del suo amico Federico Fellini – “ho sempre desiderato essere una specie di anfibio, metà elicottero e metà automobile”, dice. E se qualcuno gli fa notare che pare “8 e 1/2”, Andreotti socchiude gli occhi, sorride e si mette a guardare la scena del “Tassinaro” di Alberto Sordi in cui interpreta se stesso: a bordo del taxi, con la faccia di uno che è stato innumerevoli volte presidente del Consiglio e ministro.
Così Andreotti comincia a raccontarsi in prima persona al cinephile e filologo Tatti Sanguineti in “Andreotti. La politica del cinema”, seconda parte di un documentario-viaggio basato su due anni di interviste senza rete al vero “Divo”, dal titolo del film di Paolo Sorrentino in cui però il “divo” è crepuscolare.
Il secondo capitolo del documentario di Sanguineti è stato appena presentato in anteprima al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, dopo cinque anni di lavoro con Pier Luigi Raffaelli (montaggio di Germano Maccioni, produzione Istituto Luce-Cinecittà), su 50 ore di girato e 21 sedute di interviste fatte tra il 2003 e il 2005.
E si vede che l’Andreotti anfibio convince l’ex presidente del Consiglio prima di tutto per nostalgia dei tempi di formidabili invenzioni – “sono sempre stato affascinato dal volo”, dice, “come tutti quelli nati nei primi decenni del secolo scorso”.
Ed è con anfibio, noncurante passaggio tra uomo della realpolitik e uomo del puro divertimento cinefilo che quell’Andreotti tira fuori, seduto sul divano di casa, sotto le foto incorniciate di politici e parenti, un se stesso leggero, con occhi socchiusi o spalancati di fronte all’affiorare di memorie degli anni in cui era sottosegretario del governo De Gasperi con delega allo Spettacolo (e alla censura): un giovane politico nel pieno Dopoguerra dell’Italia bella e stracciona (1947-1953), non del tutto nuova ma ansiosa di dimenticare.
L’Andreotti che si ritrova alle prese con la contraddizione di essere “addetto alla rinascita del cinema” (“‘Quo vadis’ per Roma meglio del Piano Marshall”, dice), ma pure per forza di cose “censore”, non ha l’espressione sardonica che gli ha prestato Toni Servillo nel “Divo”, film in cui l’uomo politico, nella sua veste più nera, dispensa pillole machiavelliche a bordo del tram, in salotto o in chiesa: perpetrare il male per garantire il bene; la verità è la fine del mondo; la responsabilità non è una cosa da anime belle; Dio non vota, i preti sì.
Ma non ha senso chiedersi se sia vero questo o quell’altro Andreotti: l’Andreotti cinefilo sorprende prima di tutto per lo sguardo che ha nel rievocare il mondo perduto in cui ci si intristiva per Charlie Chaplin contestato al Sistina o in cui ci si sorprendeva a pensare a quanto fosse tronfio quel genio di Luchino Visconti.
La prima parte del documentario, “Andreotti. Il cinema visto da vicino”, è stata presentata all’ultimo Festival di Venezia, e Sanguineti in quell’occasione ha svelato l’arcano della genesi dell’opera: anni prima, lavorando al libro-intervista a Rodolfo Sonego, ex partigiano e visionario sceneggiatore di Alberto Sordi, si era trovato di fronte a un invito inatteso. “Voi non avete capito niente”, gli aveva detto Sonego, “e se volete capire qualcosa di quegli anni e del cinema di quegli anni vi conviene andare da Andreotti, uno che avrà anche ammazzato cinque film, ma ne ha fatti nascere cinquemila”.
E’ stato quello l’inizio della ricerca d’archivio matta e didi Marianna Rizzini speratissima, ma anche dell’allegra “follia”, dice oggi Sanguineti, di volersi presentare un bel giorno del 2003 in piazza San Lorenzo in Lucina, sede dell’ufficio di Andreotti, come aspirante intervistatore “non presentato da alcuno”, “mentalmente libero” e senza l’ombra “di ascendenze politiche democristiane”.
E Andreotti era rimasto basito alla richiesta di Sanguineti di farsi spiegare il perché e il percome di questa e quella censura – perché Totò non poteva mai dire “compagni” e Raf Vallone non poteva allungare l’Unità a un prete in una scena, per esempio – ma soprattutto per il fatto che quel tizio volesse farsi raccontare la vita del giovane uomo di governo alle prese con il cinema del Dopoguerra, in anni in cui il cinema, uscendo dal fascismo, era visto un po’ come residuato bellico di propaganda, e un po’ come terreno vergine per le sinistre pronte alla lotta per l’egemonia culturale.
“Lei non sa che vacanza mentale mi ha regalato con queste interviste”, aveva detto poi Andreotti a Sanguineti l’ultimo giorno, non prima di aver fatto arrivare dal bar, vista la calura estiva, una granita per lui e per il collega Raffaelli, sotto gli occhi della silenziosa complice dell’operazione: l’anziana signora Vido, ex dipendente della Camera in pensione e segretaria fidatissima del “Presidente”, appassionata di quei racconti al punto da infilare l’appuntamento con Sanguineti in qualsiasi spazio dell’agenda andreottiana.
Chissà se Andreotti parla anche un po’ di se stesso come uomo di potere mentre, nella prima parte del documentario, enumera i film che l’hanno colpito da ragazzino, e quindi quel “Dottor Jeckill e Mr Hyde” che aveva visto “addirittura tre volte” e che l’aveva fatto pensare a come nella vita si potesse riuscire “a essere un tipo e anche il tipo opposto”, e a come si potesse stare comodi sul quel “doppio binario” di “cherubino o di demonio” a giorni alterni.
GIULIO ANDREOTTI E FELLINI jpeg
Non ci si addentra, nell’intervista, nel mito negativo su Andreotti (Sanguineti sorride all’idea del “Topo gigio” del film di Sorrentino che “si fa curare il mal di testa con gli spilloni e dà baci negli aeroporti”), se non per la parte sulla rappresentazione iconografica dell’Andreotti-Belzebù (e Andreotti dice che lui non querela, non ha mai querelato, “libertà di critica”),
e poi però confessa di essere rimasto male quando Alberto Sordi, uno con cui aveva sempre avuto buoni rapporti, si era inventato la parodia del “compagnuccio della parrocchietta” con “il collo torto” – “che io magari avevo pure”, ammette Andreotti con l’autoironia che piaceva ai suoi nemici-amici, da Dino Risi in giù, che glielo dirà in faccia, come si apprende da documento audio inserito nel film:“Lei è un grande italiano, un italiano che mi piace moltissimo, lei ha il dono dell’ironia”, dice Risi. E Andreotti è quasi imbarazzato: “Mi fa piacere, visto che oltretutto lei non mi conosce di persona”.
D’altronde l’ex sottosegretario è uno che, dirà poi, ricorre all’ironia per “non imitare i rompiscatole” che non sopporta. Sullo sfondo c’è la ricostruzione con la sua euforia e i suoi angoli scuri: i pacchi di cibo americani e l’insofferenza per l’atlantismo; le spose italiane di guerra che dagli Stati Uniti, da mogli di ex soldati yankee, dicono “quant’è bella l’America, non votate comunista” e il senso di inadeguatezza democristiano.
Inadeguatezza, racconta Andreotti, per quel Pci che “aveva le scuole di partito e le scuole per magistrati”, e allora bisognava inseguirlo, e quando si trattava di aprire cinema parrocchiali bisognava stare bene attenti a che cosa si decideva di proiettare, “fermo restando che la gente pagava un biglietto e il film doveva essere appetibile, ché per ascoltare una predica tanto valeva andare gratis la domenica in chiesa”.
L’Andreotti che si racconta è, al tempo stesso, un non si sa quanto inconsapevole “puer” della visione cinematografica e il pragmatico-cinico del mito antipatizzante su di lui: eccolo che racconta della volta in cui, nel 1949, “anche i deputati e i senatori” scesero in piazza nei pressi della Camera, davanti alla polizia pronta a caricare per violazione della zona rossa dell’epoca.
E quando una deputata di sinistra l’aveva preso per il bavero e gli aveva detto “vai fuori che stanno menando i deputati”, lui aveva risposto: “Un buon motivo per restarsene a Montecitorio”. Sottotraccia, nel ritratto dell’Andreotti giovane sottosegretario, corre il grottesco della gestione ancora rudimentale del governo da Dopoguerra: ecco la polizia che un giorno, “non ancora pratica di lacrimogeni”, li spara controvento, dirigendoli su se stessa.
Per non dire del povero prefetto di Venezia Notarianni, “gentiluomo” che si sente rivolgere dallo scià di Persia, diretto al Lido per il Festival del Cinema, la più inattesa delle domande: non è che può procurarmi una bella signora per la notte? E il prefetto, preso alla sprovvista ma sentendosi obbligato alla cortesia, risponde che quella “è una richiesta da rivolgere al Questore”, e Andreotti sotto i baffi ride, anche per via del disastro che lui stesso aveva combinato in prefettura la sera in cui, da neofita del biliardo, aveva squarciato la stoffa verde del tavolo da gioco.
ANDREOTTI ALBERTO SORDI MILLY CARLUCCI
L’Andreotti censore, che nel film di Sanguineti sfiora i casi di cronaca tragici dell’epoca (caso Montesi, incidente aereo di Superga), viene a un certo punto messo di fronte alla lista dei film censurati, alle scene tagliate, alle dive che si rivestono, al David di Michelangelo che, nel notiziario “La settimana Incom”, deve indossare un cache-sex, fino alla comicità involontaria del “Don Camillo” che in Francia esce con scene “violente” (in cui i tavoli volano) e in Italia no, “per evitare disordini in sala” nel paese non ancora del tutto riconciliato.
FEDERICO FELLINI E GIULIO ANDREOTTI
Andreotti si difende, in alcuni casi dice “lo rifarei”, anche criticando en passant “la monta taurina” del “Grande Fratello” (e dando voto insufficiente, per quelle immagini, al Silvio Berlusconi imprenditore tv), ma a volte dice “beh, qui avevamo esagerato”, a doppiare la parola incriminata con un’altra più innocua, fosse la parola “compagni” (censura politica) o la parola “puttana” (censura da buoncostume).
Ed è una teoria della censura, la sua, che colpisce l’intervistatore Sanguineti per gli aspetti di “attenzione al capitale”: “Da ex povero”, dice, “Andreotti mai avrebbe voluto mandare al macero un film già girato, con tutto l’investimento economico del produttore.
Dunque preferiva prevenire”. Andreotti non sopportava di “sentirsi preso per i fondelli”, dice Sanguineti, parlando di uno dei non molti casi di opposizione a un film finito: “Umberto D.” di Vittorio De Sica. La sceneggiatura di Cesare Zavattini era stata presentata non proprio nella stesura finale (quindi edulcorata?) in fase di richiesta dei fondi ministeriali. Ma a film finito l’ex sottosegretario Andreotti aveva pubblicamente criticato, al grido di “i panni sporchi si lavano in famiglia”, la rappresentazione a suo avviso troppo miserabile di un’Italia che si stava rialzando.
De Sica “non farà un buon servizio alla sua patria”, aveva scritto, e nel documentario rilegge quelle sue frasi, e le sottoscrive a distanza di quasi sessant’anni, ricordando però che De Sica gli era rimasto amico, e che se avesse voluto stroncare film in modo anonimo, senza “rogne”, avrebbe potuto, zitto zitto, semplicemente non farli finanziare dalla sezione crediti della Bnl.
In quelle amicizie con registi e attori ricordate nell’intervista, si sente l’orgoglio andreottiano di essere stato, oltreché censore, l’uomo che nel ’47 ha riaperto la Cinecittà ridotta a dormitorio di sfollati e che nel ’49 ha fatto approvare la legge “di protezione” del cinema italiano, vessato dalla concorrenza americana dopo gli anni di autarchia fascista.
Amico tra gli amici del cinema, per Andreotti, è Roberto Rossellini, visto persino “alle prime riunioni in Via del Gesù”, racconta. E però poi il regista “si innamorava settimanalmente” di donne sempre diverse, e la cosa non era proprio adatta alla Weltanschauung della Balena Bianca anni Cinquanta.
Eppure Andreotti, da ex ragazzo con amici seminaristi che al massimo della trasgressione, a fine luglio, si trascinavano a sentire poeti da strapazzo al Festival de’ Noantri, fiera trasteverina e speakers’ corner di aspiranti Trilussa, si sentiva a suo modo a casa in quel mondo di divi anche testimonial: Aldo Fabrizi con tutta la sua romanità de “li mortacci tua”, e Silvana Pampanini portata in Ciociaria per controbilanciare mediaticamente le trovate del Pci (tipo il festival della canzone in quel di Sora) prima delle difficili elezioni del ’53, quelle della contestazione alla cosiddetta “legge truffa”.
La Pampanini compare negli ultimi giorni di campagna elettorale per sostenere un Andreotti ormai esperto di comizi, a differenza di quello dei primi giorni post Liberazione, che veniva spedito a Lanuvio per dire a voce le cose scritte negli appunti, tenendo a mente il consiglio dei veterani di “imparare a memoria la prima frase e l’ultima del discorso”, onde evitare fastidiosi vuoti di memoria o di vis retorica.
E mentre i giovani ciociari ammiravano la bellezza prorompente della Pampanini, nel filmato d’epoca compaiono famiglie con cartelli rudimentali per le vie, e non fosse per le bambine con enormi fiocchi in testa sembrerebbe una mesta sfilata di reduci, invece sono italiani a otto anni dalla fine della guerra.
esa06 giulio andreotti gianni letta
Reduce sembra pure Andreotti quando parla della vita e della morte, e dice che lui non ci tiene a finire nella “lista dei partiti”, e uno pensa che stia parlando di politica, invece allude ai “trapassati” negli elenchi dell’anagrafe. Censurare, all’epoca, poteva anche voler dire considerare inopportuno il film fatto dagli inglesi sulle prime Olimpiadi post guerra, quelle di Londra del 1948, momento di concordia sportiva dopo dodici terribili anni, con molta grandeur iconografica dei vincitori (“persino Malta” si vedeva sfilare, ricorda Andreotti, ma non l’Italia che aveva perso la guerra).
E’ vero che le ultime immagini da un’Olimpiade erano state quelle di puro nitore terrorizzante dalla Berlino del 1936, per la regia di Leni Riefenstahl, ma non per questo il sottosegretario Andreotti si convinse a favorire in sala l’ubriacatura di immagini inglesi, con atleti britannici baldanzosi e italiani dimenticati. Poi ebbe la sua vendetta: Olimpiadi di Roma del 1960, sforzi immani condotti in prima persona con i comitati olimpici negli anni precedenti, e un film-documentario che metteva l’accento sul villaggio olimpico ecumenico, dove gli atleti abitavano insieme per due settimane, senza tener conto della divisione in blocchi da Guerra fredda.
berlusconi e andreottiandreotti berlusconi
Intanto, racconta Sanguineti, Andreotti era inseguito da troupe giapponesi (compresa quella di Akira Kurosawa) che smaniavano per apprendere da lui i segreti dell’organizzazione olimpica. Figurarsi com’era rimasto, Andreotti, uomo di realpolitik, a veder spuntare i cineasti giapponesi nel bel mezzo di una complicata trattativa con i pescatori abusivi di cozze in quel di Napoli, controparte ufficiosa nella trattativa sullo sgombero di uno specchio d’acqua che doveva far da teatro a una regata.
Ultimi Dagoreport
DAGOREPORT – REGIONALI DELLE MIE BRAME! BOCCIATO IL TERZO MANDATO, MATTEO SALVINI SI GIOCA IL TUTTO…
DAGOREPORT – LO “SCAMBIO” SALA-ABEDINI VA INCASTONATO NEL CAMBIAMENTO DELLE FORZE IN CAMPO NEL…
DAGOREPORT - GRAZIE ANCHE ALL’ENDORSEMENT DI ELON MUSK, I NEONAZISTI TEDESCHI DI AFD SONO ARRIVATI…
VIDEO-FLASH! - L’ARRIVO DI CECILIA SALA NELLA SUA CASA A ROMA. IN AUTO INSIEME AL COMPAGNO, DANIELE…
LA LIBERAZIONE DI CECILIA SALA È INDUBBIAMENTE UN GRANDE SUCCESSO DELLA TRIADE MELONI- MANTOVANO-…