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Giorgio Vasta per "la Repubblica"
Siri è l'"assistente personale" di chi possiede un iPhone o un iPad di ultima generazione. A un comando vocale, risponde eseguendo un'azione oppure formulando un'ulteriore domanda. Nel momento in cui questo dispositivo è diventato disponibile si è chiarita la relazione che unisce oggi tecnologia e stupidità . Quest'ultima, tutt'altro che costituire - come accadeva in passato - un inciampo al funzionamento del dispositivo, sembra essere uno dei suoi interlocutori principali.
La diffusione di Siri è stata infatti accompagnata da un proliferare di scherzi e di motti, molti dei quali rintracciabili su YouTube. Se Siri serve - dovrebbe servire - a risolvere problemi concreti, se dunque è stato concepito in una prospettiva funzionale, ugualmente un software come questo è nelle condizioni di rispondere a tono alle domande più inverosimili. Come se gli ideatori di Siri avessero previsto la quota di stupidità - sana, ludica, sperimentale - che si annida in ognuno di noi nell'attesa di venire alla luce.
Se quindi essere stupidi non è un limite bensì un diritto, Stupidità di Gianfranco Marrone si concentra su un endoscheletro del presente chiarendo che la stoltezza, fenomeno tanto individuale quanto collettivo, è una condizione stratificata e contraddittoria: non semplicemente - come detto - un rischio, quanto un'occasione. Se usata con avvedutezza, può diventare uno strumento di conoscenza. Vale la pena allora prima di tutto storicizzarla e osservarla in prospettiva.
Marrone distingue un tempo in cui la stupidità , in quanto disgrazia di pochi, era immediatamente riconoscibile. Le strutture sociali erano molto definite e misuravano lo scarto tra imbecillità e sedicente intelligenza attraverso la figura sensibile, generata dalla comunità stessa come un capro espiatorio, dello "scemo" («dietro ogni scemo c'è un villaggio» recita il sottotitolo di Un matto di De Andrè).
Stiamo parlando di Giufà ; di colui il quale, inchiodato alla letteralità delle cose, davanti all'ingiunzione materna «Esci e tirati la porta», se ne va in giro per il paese trascinandosi dietro il parallelepipedo di legno. All'interno di una comunità gerarchizzata, l'incapacità metaforica fa di lui il totalmente altro.
Nel momento in cui, con la società borghese, le strutture socioeconomiche si modificano, quello che nel passato era l'involucro rigido della stupidità si fa via via sempre più poroso. Esauritasi la modernità , l'imbecillità monolitica e subito individuabile si parcellizza diluendosi in ogni elemento del contemporaneo. Alla stupidità , del tutto liberata, si accede ininterrottamente e democraticamente.
Se allora la stupidità è diacronica, nell'attraversare il tempo si rende disponibile a letture molteplici. Se per Flaubert «la stupidità consiste nel voler concludere», dunque nell'allucinazione di Bouvard e Pécuchet di poter esaurire, un manuale dopo l'altro, lo scibile umano (oppure, tout court, l'umano), per Adorno «la stupidità è una cicatrice», una zona di insensibilità che si è generata a partire da una ferita; se per Robert Musil «ogni intelligenza ha la sua stupidità », per Leonardo Sciascia «è ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino».
Se, ancora, la stupidità ci appartiene - è nemica, complice, intima ed estranea, monumentale o molecolare - allora le narrazioni saranno il suo alveo. L'indagine di Marrone individua proprio nelle storie narrate lo strumento elettivo di analisi della stupidità . Chance Giardiniere - interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino (1979), film di Hal Ashby, tratto dal romanzo Presenze di Jerzy Kosinsky - è un personaggio collocabile, attraverso una sua peculiare tonalità , nel solco di figure che vanno da Don Chisciotte al Principe Myskin, dal Murphy di Samuel Beckett all'ambizioso "cretino" di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene.
Il corpo cavo di Chance, il suo carattere antigravitazionale, sfida il bisogno di senso di chi lo circonda. Ancora una volta la letteralità provoca il mondo, la stupidità apparente di uno rivela la stupidità diffusa, contagiosa, di ogni essere umano.
Infine, «la stupidità non è una cosa ma una relazione», chiarisce Marrone. La nostra stupidità , potremmo dire, ha sempre bisogno degli altri (e viceversa). Ha bisogno di quello sdoganatore artificiale di stupidità naturale che è Siri, per esempio, oppure ha bisogno di uno sguardo inaspettato.
Ritrovarsi al mattino davanti alla caffettiera che esplode perché nel caricarla abbiamo dimenticato di riempirla d'acqua è un incidente; se qualche secondo dopo l'esplosione alle nostre spalle fa capolino un cane che ci guarda silenzioso, allora tutto cambia. La sola presenza dell'animale, il dialogo muto tra la sua stupidità strutturalmente impossibile e la nostra al contrario inarginabile, agisce da strumento di contrasto. Come l'asino Balthazar nel capolavoro di Robert Bresson, quello sguardo è la didascalia quieta e perentoria della nostra indistruttibile bêtise.
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