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IL PROBLEMA NON SONO LE FAKE NEWS, MA LA FAKE SOCIETY - TOM WOLFE E GAY TALESE CONTRO LA SOCIETÀ ISTERICA DEI SOCIAL NETWORK: OGNI MINUZIA DIVENTA EVENTO EPOCALE. ‘NON MI SEMBRA CHE FACEBOOK, TWITTER O LA BLOGOSFERA ABBIANO PARTORITO SCRITTORI MEMORABILI. MI VIENE IN MENTE QUELLO CHE DICEVA MCLUHAN...’
Giorgio Gandola per la Verità
«Certe volte sarebbe meglio stare zitti». Lo sostiene il principe della parola scritta, l' uomo vestito di bianco, seduto a un pianoforte a coda bianco, con la tastiera composta di soli tasti bianchi.
L' unica eccezione al monocolore della sua vita, Tom Wolfe la concede alla cravatta ancien régime, larga come un tovagliolo (niente a che vedere con quelle anoressiche degli hipster) e terribilmente blu, anche se a pois bianchi.
L' era dei social network non lo appassiona, forse per gli 85 anni, forse perché è accompagnato dalla sindrome di Umberto Eco («È un luogo dove legioni di imbecilli hanno diritto di parola»). E anche per una preoccupazione ancestrale: il web ha creato una società isterica, che non si ferma più a riflettere, ossessionata dalla paura del silenzio. E che invece di ragionare «si ascolta mentre parla».
Se i social fossero esistiti durante la Guerra Fredda, il terzo conflitto mondiale sarebbe scoppiato almeno due volte: fra Stati Uniti e Unione Sovietica per i missili a Cuba nel 1962 e fra Stati Uniti e il mondo islamico (allora protetto dall' Urss) durante il dirottamento dell' Achille Lauro nel 1985.
Con i cargo di Mosca pieni di missili in avvicinamento all' isola castrista durante l' embargo, immaginiamo un mondo di tweet, Facebook-live isterici del pacifismo militante, la foto delle testate nucleari su Instagram trafugata dal solito spione russo e schieramenti social impegnati a fronteggiarsi, roba in confronto alla quale la diatriba elettorale fascismo-antifascismo di questi giorni è una conversazione degna di L' Approdo con Edmonda Aldini.
E se una chance di non schiacciare il bottone rosso fosse rimasta in piedi, sarebbe svanita 23 anni dopo sulla nave da crociera finita nelle mani dei terroristi palestinesi, perché l' ultimo selfie dei carnefici in keffiah con Leon Klinghoffer o il reportage surreale di un turista fanatico del citizen journalism (praticamente il tornitore Brambilla col telefonino che si improvvisa Peter Arnett) condiviso da 12 milioni di americani avrebbe indotto Ronald Reagan a scatenare l' inferno.
È la sindrome da like. È il pericolo del gregge, l' effetto moltiplicatore dell' abbaiare notturno in un quartiere residenziale. A livello mediatico non c' è più equilibrio, non c' è più la grazia del sottotono. Il problema non è determinato dalle fake news, ma dalla fake society, quella che per noia concatena un disastro con l' altro enfatizzando ogni minuzia e trasformando perfino una marginalità climatica in evento epocale.
Dietro l' urgenza di testimoniare, la gente nasconde solo la sua ansia da prestazione sociale. Accade oggi anche per cinque centimetri di neve a Roma, non accadeva in passato.
Qui torna in scena Tom Wolfe, che il 22 novembre 1963 alle 13.30, un' ora dopo l' assassinio di John Kennedy a Dallas, fu spedito dall' Herald Tribune in giro per Manhattan a raccontare la disperazione dell' America colpita al cuore.
L' inventore del New journalism (il racconto come approfondimento letterario della notizia, oggi qualche webmaster buontempone lo chiama storytelling) entrò in un bar e si trovò faccia a faccia con un collega coetaneo e altrettanto famoso mandato lì per lo stesso motivo: Gay Talese. Il quale ricordando quell' aneddoto in un' intervista a El Pais continua così: «Allora gli ho chiesto se fosse d' accordo a prendere lo stesso taxi e a dividere le spese. Restammo insieme quattro o cinque ore.
Andammo a Chinatown, Little Italy, Wall Street, nell' Upper West Side, a Broadway e in nessun luogo vedemmo cose degne di essere raccontate. Nessuno si buttò dalla finestra, non c' era gente che piangesse in ginocchio sull' asfalto. Per strada c' era un' assoluta normalità. Ci salutammo».
Sarebbe impensabile oggi e non perché noi giornalisti - pur non potendo neppure allacciare le scarpe a quei due giganti - siamo a corto di argomenti, ma perché saremmo sorpassati a destra e a sinistra da migliaia di reporter improvvisati che non riuscendo a raccontare un evento, lo distorcono emotivamente gridando.
Perché oggi l' urlo stridulo della folla è la colonna sonora del mondo.
La faccenda è ancora più paradossale. Gay Talese continua: «Quando tornai al giornale dissi al mio caporedattore che mi sarebbe piaciuto scrivere sulla mancanza di emozione della gente di fronte a una notizia di tale portata. Mi rispose di lasciar perdere. Il giorno dopo, la prima cosa che feci appena alzato fu comprare l' Herald Tribune per leggere che cosa aveva scritto Tom. Cercai nel giornale da capo a fondo ma non trovai niente, non c' era traccia della nostra passeggiata del giorno prima per la città.
il matrimonio di gay e nan talese a roma nel 1959
Quindi ai presunti giganti del New journalism avevano dato l' incarico di scrivere su un fatto importante come l' assassinio di Kennedy e nessuno dei due era riuscito a farsi pubblicare il reportage. L' altra sera, mentre cenavo con lui, abbiamo rievocato questa storia. Due vecchi segugi, evocavamo i tempi in cui eravamo giovanotti pieni di energia che quando consegnarono i loro articoli sull' attentato di Dallas se li videro respingere». I due pezzi hanno visto finalmente la luce su Life Books nel cinquantenario dello storico omicidio.
Quel silenzio dignitoso di Manhattan, quel continuare a scorrere del lungo fiume della vita non era considerato notizia. Invece era la notizia più originale, la più potente. Era la verità. Solo che non c' erano i tweet grondanti livore, non c' era su Instagram la photogallery di Jackie Kennedy con la giubba insanguinata. E neppure il selfie del poliziotto con Lee Oswald appena arrestato.
Mancava il carburante indispensabile dell' ansia collettiva, del «#metoo» ad ogni costo. Il secolo breve ha avuto molte colpe, non quella di mettere in rete l' isteria e di renderla planetaria facendola credere un' innovazione indispensabile.
Di fronte all' aneddoto sublime e per contro alla panna montata dell' informazione di oggi, Tom Wolfe ha un pensiero coerente con il suo motto di vita «mi piace mettermi scomodo», che non ha niente a che vedere con la posizione sul divano. «Non mi sembra che Facebook, Twitter o la blogosfera abbiano partorito scrittori memorabili. Anche perché in quei formati brevi è davvero difficile innovare.
Mi viene in mente quel che diceva Marshall McLuhan nel '68: "Le menti di un' intera generazione sono state alterate dalla tv, rendendo il pubblico una tribù che crede soltanto in ciò che gli viene sussurrato all' orecchio". Ciò è infinitamente più vero adesso, dove chiunque può scrivere qualsiasi cosa, senza controllo di qualità alcuno.
Non ho la più pallida idea di come andrà a finire, ma so che il potere della penna si è molto ridotto». Rimane incontrastato, nonostante l' illusoria democrazia della folla, il potere e basta.
gay e nan talese a roma nel 1984
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