FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Elia Perboni per “Oggi”
Federico Leonardo Lucia, milanese, 24 anni, nome di battaglia da rapper Fedez, cresciuto nei centri sociali e tra le periferie di Rozzano e Corsico è ora una star tatuata, autore d’invettive contro politica e malcostume, bello e trasgressivo, campione di vendite. E va in tv come giudice nella nuova edizione, l’ottava, di X Factor in onda su Sky Uno. Con qualche inevitabile critica dello zoccolo duro dei fan più “nudi e puri”. Ma lui guarda oltre e si autodefinisce «diversamente rapper».
Fedez, se la musica leggera italiana fosse il parlamento, il movimento rap sarebbe ancora all’opposizione?
«In realtà ci stiamo integrando bene, siamo stati per anni all’opposizione. In questo momento, tolti i grandi big della canzone che fanno vendite ingenti, chi tiene in piedi le fondamenta dell’industria discografica sono i rapper. Non stiamo governando, sarebbe pretenzioso dirlo, ma ci stiamo arrivando».
Però l’accusa è che vi siete imborghesiti. È vero?
«Non è un’accusa, è la realtà. Non capisco perché si debbano nascondere il successo e l’idea che la passione diventi un lavoro, evitare di mettere in luce i privilegi, la fortuna che hai avuto. È ipocrisia, un codice morale che francamente non capisco. In America il tuo obiettivo è fare con il tuo lavoro più soldi del tuo vicino di casa. Rapper compresi. In Italia devi restare nel ghetto, far vedere che non guadagni niente».
Forse non è solo questo: se tu spari contro il potere, contro l’istituzione e poi ci vai dentro sei facile bersaglio delle critiche, non crede?
«Io stesso ho vissuto male questo imborghesimento. Comunque se decidi di fare questo lavoro ti capiterà di andare in posti che non ti piacciono. Personalmente non trovo avvilente l’andare in televisione nel momento in cui porti il tuo mondo dentro la scatola e non viceversa. L’indimenticabile Kurt Cobain diceva che bisogna entrare nei meccanismi per spezzarli».
Il suo nuovo album intitolato Pop-Hooli-sta, suona anche come populista, autodenuncia?
«In realtà vorrebbe significare hooligan del pop, poi è vero c’è una doppia lettura, è anche populista. Ma la mia è sempre una provocazione. Come in passato con album quali Il mio primo disco da venduto e Sig. Brainwash - L’arte di accontentare. O come il tanto criticato Alfonso Signorini (Eroe Nazionale), non volevo colpire lui ma ciò che rappresentava. Certo, se avessi scritto Meno male che Silvio c’è per Forza Italia avrei trovato dell’incoerenza in me».
Ora però entra nella macchina della tv.
«Certo, voglio portare la mia esperienza, il mio vissuto di persona che non è arrivata con i talent, ma attraverso il web con il marchio realizzato in autonomia e con una gestione indipendente. Non mi faccio più tanti problemi per questo, non ho nessun senso di colpa, me ne sono fatti troppi in passato e li ho superati.
Era anche un mio pregiudizio. Uscire da una cultura come quella hip hop fa andare molto in paranoia perché sembra sempre che il rapper debba essere confinato nel suo mondo e non comunicare a un pubblico ampio. Assurdo per una cultura che si occupa di libero pensiero»
Se la invitasse Barbara D’Urso ci andrebbe?
«No, non andrei mai a fare l’opinionista che dice la sua sull’omicidio di una ragazzina, non andrei mai a parlare di quanto sono belli i miei capelli o come i pori della mia pelle siano splendenti.
Io vado a cantare, raccontare quello che è il mio mondo, portare i miei testi, l’ironia, il mio dissacrare e fare della satira. Se vai ad Amici vai a fare un’esibizione e va bene, ma non vado a Master Chef a tagliare le zucchine».
Superati i pregiudizi, come si trova con la toga di giudice a X Factor?
«Mi piace poter trasmettere la mia esperienza a chi comincia. Anche perché non c’è l’equazione “X Factor=vendita di dischi”. La discografia è un’incognita, è una X per l’appunto. Il talent è uno spremiagrumi dal quale esce solo un seme. E ci si dimentica degli altri. Per una persona che arriva resta dietro una scia di sangue molto lunga. Il mio obbiettivo è anche insegnare a essere imprenditori di se stessi, capire come funzionano i meccanismi dei contratti, non farsi fregare».
Lei lo ha imparato bene?
«Sì, molto bene. Io discuto di persona ogni cosa mi riguardi».
Come ricorda quel Federico che girava per Rozzano?
«Era molto più rilassato, con meno catrame nei polmoni e meno ansia. Ma è rimasto, fortunatamente, la mia vita è cambiata ma la testa è quella».
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