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Maurizio Ferraris per “la Repubblica”
Sul New York Times Amy Butcher ha rivendicato un “femminismo degli emoticon”. In effetti, è difficile darle torto: gli ideogrammi contenuti nei nostri smart(sino a un certo punto)phone rappresentano le donne come ballerine di flamenco e conigliette, e gli uomini come poliziotti e detective.
Gli strumenti tecnologicamente più evoluti si rivelano sociologicamente, o almeno iconograficamente, involuti. L’arretratezza non è solo di genere: nel menù degli emoticon troviamo oggetti scomparsi da tempo: dischetti da tre pollici e mezzo, cineprese da otto e mezzo, telefoni fissi, buste da lettera, cassette postali, corni da postiglione. Come è possibile?
Per rispondere dobbiamo tornare indietro di duecento anni. Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Hegel pronuncia un verdetto apparentemente senza appello: gli ideogrammi (dunque anche i nostri emoticon) sono “un leggere sordo e uno scrivere muto”, mentre la scrittura alfabetica è “in sé e per sé la più intelligente”.
Gli ideogrammi, osserva Hegel, vanno bene per una cultura immobile come era a quei tempi quella cinese. Ma in un mondo dinamico come quello occidentale, in cui ogni giorno entrano in scena nuove invenzioni e si costruiscono nuovi concetti, gli ideogrammi sarebbero sempre in ritardo, mentre la scrittura alfabetica permette, con semplici accoppiamenti tra lettere, di esprimere concetti come “ascensore”, “computer” e “dialettica hegeliana”, appunto.
A lungo questa risposta è apparsa non solo logocentrica, perché postulava una superiorità della voce sulla scrittura, e dell’alfabeto in quanto scrittura subordinata alla voce, al logos, rispetto a quella scrittura pura, indipendente dalla lingua, che è l’ideogramma, ma anche etnocentrica, perché sembrava attribuire una superiorità, almeno in fatto di dinamismo, all’Occidente.
Ora però gli emoticon sembrano dar ragione a Hegel: sono sempre inadeguati rispetto alle necessità espressive, e, soprattutto, sembrano manifestare degli stereotipi poco meno immobili della cultura mandarina.
La vittoria di Hegel è però soltanto parziale. Perché sarà anche vero che c’è un senso in cui la scrittura alfabetica è più dinamica degli ideogrammi, confermando uno dei due corni del logocentrismo, la superiorità dell’alfabeto sul geroglifico. Ma c’è un altro senso in cui il logocentrismo è stato sbaragliato dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi trent’anni. Facciamoci caso: se ci si trova a ricorrere agli emoticon è perché su un cellulare, cioè su un apparecchio nato originariamente per parlare, preferiamo scrivere.
Prima sono apparse le lettere dell’alfabeto poi i nostri smartphone si sono arricchiti di un repertorio sempre più ampio di emoticon, tanto che la memoria di un telefonino trabocca di simboli come una biblioteca o una piramide.
Se davvero, come vogliono Platone, Rousseau e Hegel, la voce umana fosse il bene sommo e la scrittura un ripiego, non sarebbe mai successo che la macchina per parlare si trasformasse in una macchina per scrivere, all’occorrenza, anche con quella scrittura al quadrato che è l’ideogramma.
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