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Enrico Sisti per "la Repubblica"
La grandezza di Serena Williams si spiega con la grandezza, eguale e contraria, di Viktoria Azarenka. La prima ha vinto (6-2, 2-6, 7-5) ma ha rischiato di perdere, la seconda ha perso pur sfiorando l'impresa. Carattere d'acciaio, braccio di ghisa, cuore senza limiti, la bielorussa si era avvicinata così tanto al sogno che per un momento le è sembrato di poterlo toccare con una mano. Dovendo riprendere coscienza dopo un primo set disastroso, si era arrampicata sull'impossibile.
Aveva restituito la cortesia nel secondo e nel terzo aveva servito per il match sul 5-4. Le due ultradonne si sono spinte a vicenda, caricando ognuna sugli errori dell'altra (forse troppi quelli di Serena, 45). In una fervida combinazione di stanchezza e trance agonistica erano arrivate insieme al punto di non ritorno (la prospettiva possibile del tie-break nel terzo set). La loro strategia era semplice e complessa. Soltanto una suprema qualità , una stabile combinazione di forza e scioltezza potevano garantirne l'attuazione da entrambe le parti: si sono flagellate di colpi, alcuni dei quali sublimi.
«So close to that line and so far from satisfaction». Proprio vero: «Ero così vicina al traguardo eppure così lontana dal prendermi questa soddisfazione», ha ammesso Viktoria. Il suo rammarico ricorda una canzone (di Joni Mitchell in questo caso). La ragazza che non voleva smentirsi (è ancora la n.1 del mondo) non è riuscita a oltrepassare la frontiera. Non ha scansato Serena. Più di prima, però, lei e l'altra sono sulla stessa barca. Questa finale ha definitivamente chiuso un'epoca. Nell'era del tennis delle ultradonne bisogna rispondere a quattro requisiti: muscoli, concentrazione, resistenza e tecnica.
Alle n.1 che si sono alternate in questi anni (Safina, Ivanovic, Jankovic, Wozniacki) è mancata la concentrazione. Ad alcune la tecnica. Non si finisce davanti a tutte se non si ha lo stomaco, se mancano le motivazioni, se pesano i viaggi o le responsabilità . Per essere una delle prime tre o quattro al mondo, e soprattutto per restarci è necessario che il mosaico dei valori sia completo. Basta un elemento in meno e si resta indietro.
La Errani più di questo non può fare. La Stosur non è mai stata continua. Na Li e Kvitova altrettanto. Pure la Sharapova va a ondate. Oppure si infortunano. O magari si ritirano. Serena stessa ha faticato, si è allontanata, ha temuto di non poter più risalire. Che sia la n. 4 è un dato che colpisce (dietro la Radwanska!). Tuttavia è lei il filo rosso che lega e simboleggia gli ultimi tredici anni di tennis femminile e la sua evoluzione (il suo primo Us Open risale al 1999, lei aveva 17 anni). Non ha mai giocato così bene. à più magra e i suoi piedi danzano sulle punte.
à lei il modello del futuro, una versione aggiornata, «enhanced», di Venus. Delle top players solo la Azarenka pare assecondarla. Ormai le giovanissime vengono selezionate secondo questi criteri: super-ragazze che abbiano dimestichezza con la violenza del tennis maschile, e parliamo di Raonic, non di Nadal. Alte, cattive, capaci di smashare da fondo campo. E possibilmente meno sensibili alle rotazioni.
Che sappiano giocare di volo è un dettaglio: nemmeno una donna ha più il tempo materiale, a queste velocità , con questa potenza di fuoco, per scendere a rete o costruire il rovescio a una mano. Il futuro? Sloane Stephens. La californiana è la più giovane delle Top 50 (19 anni). Piaccia o no, la strada è questa.
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