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Antonio Monda per "la Repubblica"
La mattina in cui John Fitzgerald Kennedy venne assassinato, Gay Talese fu inviato a raccogliere le reazioni della gente comune per le strade di New York. Uscito dagli uffici del
New York Times, dove lavorava già da sette anni, incontrò Tom Wolfe, al quale era stato assegnato lo stesso compito dall'Herald Tribune.
«Decidemmo di prendere insieme un taxi per dividere le spese», racconta nella sua townhouse dell'Upper East Side. «I giornali ci chiedevano di prendere la metro, ma quella era una notizia troppo grossa, e non c'era tempo da perdere».
Cosa avete scoperto quel giorno?
«à importante chiarire che la parte iniziale del nostro reportage è avvenuta prima che il presidente fosse dichiarato morto. Fino a quel momento notammo una relativa e sorprendente indifferenza: la gente continuava a lavorare e a svolgere le normali attività senza grandi sussulti, e se fossimo stati fotografi non avremmo scattato immagini come quelle che avevano espresso sgomento all'inizio della guerra o felicità alla fine del conflitto.
Ricordo il nostro crescente stupore per la banale quotidianità , e la ricerca di qualcosa di forte: ma non trovammo nulla, nonostante ci aggirassimo per Chinatown, Little Italy, Wall Street e poi nella zona dei diamanti sulla 47esima strada. L'impatto fu estremamente diverso rispetto all'attentato dell'11 settembre: in quel caso ci fu la percezione immediata e fisica di pericolo che si trasformò in paura e orrore. C'è da ricordare che oggi Kennedy è diventato un mito, ma all'epoca non era affatto popolare».
Come mai oggi la percezione del presidente è così diversa?
«Kennedy è morto nel momento giusto ed è diventato immortale, come Marilyn, James Dean, Rodolfo Valentino. Era bello, ricco, affascinante, ma almeno sino a quel momento deludente sia sul piano della politica interna che di quella internazionale: basti ricordare il fiasco della Baia dei Porci e l'inizio della guerra in Vietnam. Tuttavia il sacrificio lo ha reso un'icona indelebile, mettendo in secondo piano la realtà .
«C'è da fare anche un'altra riflessione: quello stesso giorno ci fu un cambiamento fondamentale e irreversibile nel momento in cui Walter Cronkite annunciò la morte e pianse in diretta televisiva. Quello è l'istante in cui la televisione diventa la principale fonte d'informazione, lo strumento che dice alla gente come comportarsi e reagire. Soltanto allora il Paese, e poi il mondo intero, si è allineato e si è fasciato a lutto».
Secondo lei, chi ha ucciso Kennedy?
«Io ritengo che sia stato Oswald, e ne ho parlato a lungo con Norman Mailer, che ha scritto su di lui un libro affascinante. Gli elementi che pendono per la sua colpevolezza sono molto più convincenti di tante teorie del complotto diffuse poco dopo l'attentato. Oswald era filo-sovietico e filo-castrista, e sul piano umano aveva tutti gli elementi psicologici che possono far comprendere un gesto così violento, a cominciare dalla frustrazione e un insopprimibile senso di fallimento. Non ho mai visto prove certe sul coinvolgimento della mafia nell'attentato: per molto tempo non è stato popolare affermarlo, ma personalmente ho sempre creduto nelle conclusioni della Commissione
Warren».
Parlando di Kennedy è inevitabile soffermarsi sui suoi due rivali: Nixon e Johnson.
«Il confronto rafforza quello che dicevo sulla novità della preponderanza della televisione: sul piano della dialettica e delle idee, Nixon vinse il famoso dibattito televisivo, ma era rasato male e sudava. Finì per prevalere l'immagine e vinse Kennedy. Nixon e Johnson erano due personalità diverse, con elementi anche tragici, ma entrambi di alto livello. Non sono mai stati amati dai media e Johnson, nonostante fosse un democratico, era disprezzato dal Washington Post, dal New York Times e dall'intelligentsia di Harvard e Yale.
Io ritengo che sia stato un politico molto più preparato e interessante, ma certamente non gli ha giovato il suo arrivo a Washington con la salma del presidente Kennedy: Bob Kennedy, allora ministro della Giustizia, non lo salutò neanche e andò direttamente da Jackie che aveva il vestito ancora imbrattato di sangue. E in quel momento Johnson era già il presidente».
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