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Marco Giusti per Dagospia
Gran folla ieri sera all'Arena del Nuovo Sacher per l'anteprima di un piccolo film già di culto in Francia, "L'estate di Giacomo", opera prima di Alessandro Comodin, presentato da un Nanni Moretti con pantalone sgarato (per questo con una mano di dietro cercava di coprire il buco e camminava attaccato al muro) all'interno della sua rassegna estiva Bimbi Belli dedicata agli esordienti italiani.
Già premiato con il Pardo d'Oro come Cineasta del Presente al Festival di Locarno dello scorso anno e uscito il 4 luglio in Francia con recensioni esaltanti,"luminoso teen-movie", "limpidezza radiosa", "commovente e tenero", "grande promessa del cinema italiano", "L'estate di Giacomo" è una complessa, ambiziosa contaminazione tra il documentario d'autore, il film verità alla Jean Rouch e il film di formazione giovanile nouvellevaguistico.
E' un peccato che non lo abbiano scoperto i maggiori festival nostrani (dove erano Muller e De Tassis?), ma del resto Comodin, trentenne friuliano, ha studiato cinema a Bruxelles, vive a Parigi, e ha messo in piedi un film indipendente, distribuito dalla Tucker Film ma coprodotto col Belgio, che ha molto poco dell'opera prima italiana targata Fandango o Indigo.
Per 75 minuti, infatti, seguiamo Giacomo Zulian, un ragazzo sordo, lo capiamo dalla prima inquadratura vedendo la sua macchinetta dietro l'orecchio mentre suona la batteria, durante una serie di escursioni estive con un'amica, Stefania Comodin, sorella del regista.
Non c'è una vera e propria storia. Tutto gioca sulla tenerezza dello sguardo del regista, amico del fratello maggiore di Giacomo, nel seguire il ragazzo nella sua uscita dal guscio casalingo verso il mondo, riprendendo così il suo diventare adulto dentro luoghi precisi, un bosco, la riva del Tagliamento dove i ragazzi faranno il bagno, che sono i luoghi delle estati e della giovinezza dello stesso regista.
L'idea iniziale, ha detto Comodin nel lungo, un po' estenuante dibattito che ha seguito la proiezione del film accanto a Moretti che indossava dei pantaloni stavolta non sgarati, era quella di seguire Giacomo prima e dopo l'operazione che lo avrebbe portato finalmente a sentire e a uscire dalla sordità .
Per questo aveva ripreso per mesi anche le sedute di logopedia che lo avrebbero portato a parlare meglio. Ma aveva poi scelto di togliere tutto questo percorso e lasciare solo la sua estate, vedendo in questa l'esatta documentazione e metafora della sua crescita, del suo diventare adulto. Poco adatto, sulla carta, al pubblico italiano che ormai è pronto a muoversi per "Madagascar 3" e il nuovo Batman, "L'estate di Giacomo" affronta eroicamente la terribile uscita estiva, anche se questa si limiterà a poche sale specializzate tra Milano (è già all'Anteo), Roma (due sale da fine settimana) e Pordenone, ma può vantare un effetto mediatico abbastanza sorprendente di "film caso" in grado di smuovere il cosiddetto pubblico intelligente, e ahimé non giovanissimo, che ieri, ad esempio, affollava il Sacher come se fosse stato un vero e proprio evento culturale. Non vi aspettate un capolavoro, ma nemmeno un film tradizionale.
La grazia di "L'estate di Giacomo" e la sua luminosità vi arriveranno solo se vi farete trascinare dai suoi due protagonisti nel percorso verso il Tagliamento dentro il bosco e se seguirete passo passo le indicazioni del regista nell'osservare la scoperta della natura e dei suoi rumori attraverso la lingua dei sordi che parla Giacomo, un misto di eccesso di parolacce e di espressioni forti che solo chi non ha consapevolezza della propria voce può capire. Solo seguendo questo percorso, vi apparirà un evento la scoperta del fiume e qualsiasi piccola cosa che capiterà dopo.
Non è un documentario alla Raymond Depardon, che lo stesso Comodin ha dichiarato di non amare, ma non è propriamente neanche un documentario, visto che tutte le azioni sono in qualche modo frutto di una messa in scena e la camera, tenuta nella mano dello stesso regista, non è mai veramente esterna. Va detto che proprio nelle sue contraddizioni, un film verità -ma anche di finzione, un film che non ricerca le belle immagini ma cerca la grazia della natura nei suoni e nelle immagini, stanno i suoi difetti e i suoi meriti.
E' però, come "Corpo celeste" di Alice Rohrwacher, un'ottima opera prima, e dimostra che il nostro cinema, quando riesce a uscire dagli schemi rigidi della produzione e accetta il corpo a corpo con la creatività e la riflessione rosselliniana sulla realtà , sa trovare immediatamente la sua strada. E dimostra, soprattutto, quanto abbiano bisogno i nostri giovani registi di uscire da questi schemi di cinema di papà ormai scoppiato e inventarsi dei linguaggi diversi e personali. E più lontano sei dal paese e più è facile trovarli.
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